Non credo di avere la forza fisica, sicuramente non ho quella mentale, per gettarmi nel discorso “la riscrittura dei libri di Roald Dahl”. Non ce l’ho perché la vita è già sufficientemente dura di suo, e perché in realtà è una faccenda complicata, e tanto più complicata da essere faccenda che, è la contemporaneità baby, viene sviscerata da chiunque sui social. In realtà andrebbero, se uno volesse parlarne, eh, sia chiaro, messo sul tavolo almeno un paio di discussioni parallele. Da una parte si dovrebbe affrontare la questione, in fondo è di editoria che stiamo parlando, no? Che i testi degli autori morti non andrebbero rivisti e corretti è una pia illusione, roba da babaloni, e infatti da sempre sono oggetto di costanti aggiornamenti e revisioni. Lavori editoriali, appunto, atti a rendere testi datati appetibili a un pubblico sempre meno avvezzo alla lettura, men che meno alla lettura dei classici (figuriamoci, siamo sopravvissuti alla ristampa negli Oscar Mondadori di 1984 di George Orwell col logo del Grande Fratello in copertina, potremo sopravvivere a un grasso che si trasforma in enorme in un romanzo di Dahl, direi), più agili, nel caso siano troppo lunghi, più scorrevoli, quindi, che la gente fatica a stare troppo attenta a quel che legge, più colloquiali nella lingua anche quando in origine di colloquiale c’era praticamente niente. Le favole, poi, sono oggetto di revisione anche ulteriore, da tempo, perché un tempo erano crude e violente, tutti a pensare, tutti si fa per dire, che quella cattiva fosse Angela Carter, mentre nei fatti quelli cattivi erano i fratelli Grimm e tutti gli autori greci prima di loro. Quindi, ok, ora abbiamo un problemino con la cancel culture e con il politicamente corretto/scorretto, ma a dirla tutta la faccenda della revisione dei testi non è certo cosa nuova, anzi, è vecchia come la stampa di Gutenberg, solo che prima neanche ci si faceva caso (le reader’s deagest, del resto, le abbiamo accettate come fosse la cosa più naturale, come anche i Bignami). da un mero punto di vista editoriale
Dall’altra, però, abbiamo il popolo bue che vuole il sangue, e il sangue che il popolo bue vuole, attenzione, quella che avete appena letto è una classica provocazione situazionista, prendetela per quello che è e non vi incazzate, il sangue che il popolo bue vuole è sia quello di chi chiama nano un nano, grasso un grasso e via discorrendo, Mark Twain chiamava negri i negri e a un certo punto ha smesso magicamente di farlo, ma ai suoi tempi così funzionava, santo dio, sia quello di chi vuole rispetto per tutti, anche per una minoranza fatta magari di un singolo, se lui si offende non va detto, questo il concetto. Insomma, un gran casino, perché se è giusto tutelare chiunque, specie i più deboli, pensare di farlo nell’arte, dove la morale non ha cittadinanza (può averla, ma non per diritto acquisito, solo per volontà dell’artista), è un errore di quelli che, fossimo David Fincher, faremmo incarnare da un qualche delitto violentissimo compiuto da Kevin Spacey, uno che di queste faccende, peraltro, credo se ne intenda manco poco, parlo di cancel culture e via discorrendo. Quindi che i nani di Roald Dahl diventino persone non troppo alte ci sta pure, anche se i bambini sono molto più scafati di quanto si ami pensare, ma che il tutto venga fatto per tutelare i nani, dai, su, non scherziamo, i nani sono nani e chiamarli in un romanzo persone non troppo alte, dopo che per decenni li si è chiamati nani non li farà essere più alti o sentire meno a disagio, figurati come si dovrebbe altrimenti chiamare la combriccola capeggiata da Dotto e Biancaneve.
Raccontata così, in ordine, la faccenda immagino perderebbe parte del suo appeal, se si fosse detto che editorialmente i testi vengono riveduti e corretti ciclicamente chi mai avrebbe alzato lai e lamenti per quei romanzi, peraltro acquisiti in blocco da Netflix, che dell’inclusività è una sorta di azienda manifesto, pur rimanendo aperta la ferita insanabile della morale nell’arte, faccenda che sembra non stare praticamente a cuore a nessuno, e che ciclicamente viene fatta a pezzi da discorsi, spesso discorsi tirati via sui social, di chi vorrebbe una qualche forma di educazione in contesti che giocano per loro natura tutt’altra partita. La noia, invece, quella che leggere Guelfi e Ghibellini che si picchiano verbalmente sui social cercando di difendere le loro ragioni, spesso giocando anche a ribaltarle, perché vuoi mettere a essere il bastian contrario, quello che fa l’eversivo, signora mia, ecco, la noia resta protagonista assoluta della scena, al punto da far risultare quasi eccitante vedere l’Agcom indagare sul plug anale Made in Italy sponsorizzato in via subliminale da Rosa Chemical all’Ariston durante le dirette del Festival. Questo almeno finché qualcuno non proporrà a qualche genetista di toglierci il buco del culo, tempi di apocalisse si stagliano all’orizzonte.