In un recente articolo ho criticato a Cosmo una linea di pensiero irresponsabile in questi tempi pandemici. Ma nelle mie elucubrazioni ho trascurato un tassello e rendermene conto mi ha infastidito. Il punto è questo. Facile, ho pensato a posteriori, criticare un artista parlando poco o niente della sua arte. Facile parlare di un musicista senza entrare nel merito della sua musica. Dovessi contare tutte le volte che non rendo giustizia all’onestà intellettuale!
Almeno questa volta, però, potevo porre rimedio.
Ho così deciso di prendere il nuovo disco di Cosmo, La Terza Estate dell’Amore, e contestualizzarlo nella follia di questo 2021. Alla ricerca di un bilanciamento, ho agganciato il suo disco ad un altro lavoro, di un artista completamente diverso da lui. Quello che ne ho tratto mi ha scatenato delle connessioni neurali che valevano un approfondimento.
Il parallelismo con il percorso di Gazzelle è nato in modo del tutto casuale. La Terza Estate dell’Amore si propone (tra l’ironia e la supponenza) come terzo elemento di un trittico che parte dalla Summer of love del ’69, prosegue con il movimento rave di fine anni Ottanta e arriva ad oggi (Cosmo ha elaborato il concetto presumibilmente nella erronea convinzione che il Covid avrebbe effettivamente lasciato spazio ad una estate di spensieratezza, cosa che non è avvenuta). Nel riflettere sull’ondata dancefloor rave di fine anni Ottanta, lasciando vagare la mente ascoltando l’album, mi è venuto spontaneo ricordare quel (poco) che so del movimento alternative dance della Manchester di quegli anni, il cosiddetto baggy.
L’ondata di energia ed ecstasy di gruppi come gli Happy Mondays dalla quale poi sarebbero venuti fuori come da un azzuffamento a nuvoletta gli imbronciati e ineleganti Oasis. La retromania discotecara di Cosmo, insomma, mi ha fatto pensare alla retromania cantautorale derivata dal brit pop. La recente riedizione di Ok (dal sobrio titolo Ok un cazzo), disco di Gazzelle uscito all’inizio di quest’anno, ha fatto il resto. Sono molto affezionato a Gazzelle, ho osservato da vicino i suoi primi passi e al suo primissimo concerto milanese, qualche anno fa, in apertura c’ero io. Oramai ero partito per la tangente e mi sono messo ad ascoltare i due dischi insieme, come mescolando le carte prima di una manche di un gioco del quale non conoscevo le regole. Ne ho tratto in parte conferme e in parte rivelazioni.
Cosmo e Gazzelle sono due artisti profondamente diversi. Uno romano, classe ’89, derivativo fuori tempo massimo dal mondo del brit pop fuso con una poetica vaschiana (Rossi, non Brondi), melodista incredibile. L’altro piemontese, già cantante dei Drink To Me, ha iniziato da un terreno synth pop fino a raggiungere coordinate più specificatamente dance, gran producer e aggregatore formidabile di energie e personalità diverse (sua iniziativa la tribù di Ivreatronic), una personalità per certi versi simile al Jovanotti di qualche anno fa. Pur essendo le loro proposta diverse i loro pubblici sono per molti versi sovrapponibili, anche perché le carriere dei due sono entrambe esplose nel biennio 2016/2017.
Gli album, usciti in uno degli anni più difficili della storia recente del mondo, sono entrambi una vorticosa altalena nel cervello dei due autori. Difficile, pare, far dimenticare ai cantautori odierni l’esistenza di sé stessi. E in questo senso il loro contributo è del tutto in linea con la contemporaneità, ossessionata da un’egotismo che trascende il reale. Fin dall’attacco Cosmo presenta il suo manifesto programmatico. “Sventolano bandiere sulle macerie di quest’epoca stupida e io ci godo un po’” canta in Dum Dum. E pensare che io lo avevo accusato di nichilismo solo dai post di Facebook: la sua dunque è coerenza allo stato puro.
Tra suoni d’ambiente e un arrangiamento che gioca tra techno e dei respiri ASMR, il pezzo è l’essenza dei suoi progetti di conquista. La sua iniziale rivendicazione di furore assoluto influenza l’ascolto di tutto l’album. Anche nei momenti più apparentemente leggeri, come Mango, il ragazzo non ce la conta giusta: spiace per Cosmo, ma il cinismo aleggia ovunque. D’altronde, già in Greta Thunberg/Lo Stomaco, sensazionale pezzo con Marracash del 2020 cantava “La mia razza si estingue” con un godimento un po’ troppo sospetto.
Gazzelle invece si muove fin da subito su coordinate meno sofisticate e più dirette, in primis musicalmente. Blu (in inglese, tristezza) racconta tutto il disco: la scrittura del brit pop, le batterie dei Backstreet Boys e testi sconsolati nello spirito e nel cuore. Le canzoni di Gazzelle sono piccoli indovinelli sulla depressione, filastrocche ostinatamente costernate, incorniciate da melodie da manuale della scrittura. Curiosamente la bellezza del songwriting dei due autori sembra un tutt’uno con la loro desolazione.
Perché sia Cosmo che Gazzelle sono abbarbicati nella propria perfezione formale. I due, come altri rappresentanti della loro generazione, non hanno bisogno di alcuno sforzo per raggiungere gli standard estetici e qualitativi che i loro riferimenti stilistici hanno tracciato in passato.
Gazzelle scocca frecce da un arco melodico dorato che raggiungono praticamente sempre l’obbiettivo. È clamoroso quando traccia la linea vocale di Destri e la fa flirtare con quella chitarra ironicamente “italiana” ed è addirittura maestoso quando in GBTR piazza quel ritornellone ascendente che svisa a metà su un minore inusuale.
E Cosmo non è da meno. Le sue produzioni, il vero cuore del messaggio concettuale di questo album, non sbagliano mezzo accento, mezzo suono, mezzo sample. I morbidi synth di Vele al Vento riempirebbero di felicità James Murphy, la chitarra classica che entra nel finale di La Cattedrale mescola l’alto e il basso e i riferimenti geografici con una nonchalance impressionante, per non parlare della costruzione dell’arrangiamento di Io Ballo o della piccola magia di Gundala, a tratti un rimando sintetico a Moss Garden del Bowie berlinese.
Questa è maestria, è bravura, è gusto, poche storie.
Eppure, dopo ottant’anni di canzoni, più che di ispirazione tutta questa bellezza profuma di maniera. Entrambi i cantautori sono prestigiatori impeccabili, di trucchi che però sono tutt’altro che sconosciuti. Rappresentano la loro idea di musica nell’epoca della massima raggiungibili tecnica della stessa. La ripropongono in un raffinato loop di rimandi potenzialmente infinito.
Ed è proprio in questo contesto che si fanno largo le tematiche di sconfitta di questi pezzi.
A che serve la musica, sembrano domandarsi queste canzoni, se è perfetta già da prima della sua stessa composizione? Si può solo ricalcare ostinatamente il passato, con la malinconia di chi sa di essere esistenzialmente in ritardo. La fissazione retrò di entrambi i progetti, la bravura formale, sembra chiamare una moderna forma di frustrazione, dentro un mondo che già di suo fa di tutto per renderci le cose difficili.
Dunque, ecco che mentre uno, Cosmo, canta l’atrofizzazione degli ideali, l’altro, Gazzelle, canta l’atrofizzazione dei sentimenti: ce n’è di che essere sconsolati.
Ma entrambi paiono godere dei loro vortici emotivi ed intellettuali, in un egotismo orgiastico di una tale violenza che, quasi, fa sentire disorientati. Fa sentire spaventati. È uno straordinario pop autoriferito, è Egotic Pop.
La disillusione dei quasi quarantenni italiani che restano appesi ai rami della vita con tutta la loro forza e già che ci sono non credono più in niente è il tema cardine di tutte le canzoni di Cosmo, travestite da cronaca di una nottata all’insegna del ballo. “Sei morto per prudenza”, “Ogni vicolo è già un campo di battaglia”, “Parli di anarchia, ed io, io ti invidio”, “Cosa sogni nelle fogne? Missione fallimento”, “Ma quali adulti? Mani in alto”, “Ridisegno la mappa di una nazione che scompare”. Wow. Aria di rabbia, quasi di torce e di forconi. Anche la salvifica Noi, posta nel finale con quel verso potente di speranza e catarsi, «Sono te», non riesce a riscattare tutto questo livore perché, come Cosmo dice altrove «Ballo per distruggere chi sono». L’obbiettivo finale è sempre quello: una forma di auto-annientamento.
Il filo conduttore delle canzoni di Gazzelle è invece il senso di solitudine e di abbandono dei trentenni, bruciati da un’educazione sentimentale irrealistica e lanciati allo sbaraglio nell’età dello sviluppo dentro un mondo in sgretolamento.
“Siamo due fiori cresciuti male, sul ciglio della tangenziale”, “Ma è sempre così, ad annegare, come un'oliva nel gin”, “Giurami che cercherai di stare qui, anche se vorrai strapparmi di dosso”, “Respirami addosso ancora un po', ti prego, non riesco a mangiare”, “Non mi scordo come è brutto il mondo, che sto bene solo quando dormo”. Porco cane. Dopo aver messo tutti in fila questi versi occorre fare un respiro profondo. Gazzelle ci prova pure a confondere le acque di tanto in tanto. “La verità è che non riesco più a perdere” canta in 7, ma non ci caschiamo: il punto qui è che non si riesce più a non farlo.
Deve essere bella tosta una cena insieme a Gazzelle e Cosmo. E si badi bene, non mi riferisco ad una cena con Marco e Flavio. I due scrivono in modo sostanzialmente diverso eppure, per assurdo, i testi dell’uno funzionerebbero sulle musiche dell’altro e in certi momenti le sovrapposizioni sono incredibili. Gazzelle canta “Bruciare in una notte, come una cattedrale” e Cosmo risponde con La Cattedrale, appunto. Cosmo canta “Ho degli amici che è meglio che stai attento, se ti prendono ti abbracciano, delle bestie che girano in libertà” e Gazzelle risponde con Belva.
Persino le loro voci, pur differenti, si muovono su terreni complementari. Cosmo con il suo timbro arrabbiato e sarcastico, Gazzelle con il suo timbro annoiato e distaccato. Due facce della stessa disillusa medaglia, tra la collera e il passivo aggressivo.
Entrambi fantasticano attorno ad un ritorno al primitivo, rivendicano le pulsioni erotiche come un rifugio, in una corporeità a tratti priva di affetto e inondata di alcol e cocktail.
I loro sono due dischi che, più che belli, risultano significativi. Fotografano diffusi sentimenti reali e raccontano l’immensa frustrazione di essere stati educati all’invincibilità in un mondo minato alle sue fondamenta.
Sembra quasi di sentire degli androidi programmati, che riescono nel compito di rappresentare lo spirito del proprio tempo apocalittico come nessun altro. L’effetto finale suona un po’ come un monito rispetto al pericolo della disumanizzazione. Nemmeno a farlo apposta, lo stesso pubblico a cui parlano Cosmo e Gazzelle è stato tramortito nel 2021 dall’immensa opera di Zerocalcare Strappare Lungo I Bordi. Anch’essa un tripudio di perfezione estetica e un viaggio nei meandri della depressione di una generazione che si sente sbagliata e senza via d’uscita. Probabilmente il limite di queste belle opere risiede proprio nella mancanza di volontà degli autori di andare oltre sé stessi, nel tentativo di uscire da questi schemi. È come se l’arte rappresentasse esclusivamente un veicolo per accedere ad un baratro, a quel vaso di Pandora che molti aprono durante l’adolescenza e poi non riescono più a richiudere. Ma c’è una dimensione etica che non torna. Chi se non gli artisti dovrebbe lanciarsi alla ricerca di una moderna forma di resilienza, di fronte a questi tempi faticosi (ma non più drammatici di altri della storia dell’umanità)? Se qui la questione è generazionale, chissà, forse quel compito spetterà esclusivamente alla generazione Z. Sperando che nel mentre i boomer non abbiano fiaccato troppo il loro portafoglio e che i millennial non abbiano fiaccato troppo il loro spirito.