Vi è mai capitato di ascoltare qualcosa in radio mentre state viaggiando in auto e di scoppiare improvvisamente a piangere? Non mi succede spesso, stavolta però è accaduto e non sono riuscito a trattenere le lacrime. Il problema è che dopo mezz’ora, al casello, sono scoppiato a ridere fragorosamente, senza freni, cominciando ad avere dei dubbi sulla mia stabilità mentale. Per fortuna quelle irresistibili reazioni, a delle emozioni fortissime che mi hanno letteralmente investito, non erano frutto della mia fantasia. Stavo infatti ascoltando l’intervista più bella dell’anno (e probabilmente fra le più belle di sempre) che il giornalista Malcom Pagani ha realizzato all’attrice Sabrina Impacciatore per il podcast Dicono di te (prodotto da Chora). Premessa: non c’è nessun accordo commerciale per questo articolo, nessuna conoscenza con i diretti interessati (peccato) e neppure un qualche interesse sotteso alle lodi che sto per fare. Anzi, da giornalista dovrei rosicare quando un collega riesce nell’impresa, rarissima, di tirare fuori da un intervistato una storia così intensa e vera, così ricca di insegnamenti e così drammatica in tutto il suo splendore. Invece mi sono stupito che fosse passato un mese dalla pubblicazione e nessuno ancora ne parlasse. Misteri del giornalismo italiano: abbiamo una artista celebrata in America (grazie alla serie White Lotus), un giornalista che la fa esondare in tutta la sua umanità, e noi parliamo da un mese dell’inutile dissing tra cantautori e rapper che litigano sull'autotune.
Ma andiamo al punto, che coglie immediatamente Pagani nell’introduzione: “Ride e piange. Piange e ride. Provate a seguirla e non è escluso che vi capiti la stessa cosa”. Puntuale e profetico. E chi non piange e non ride, mi sento di aggiungere, dovrebbe porsi delle domande sulla propria sensibilità. Sì, perché quella di Sabrina Impacciatore è una parabola umana e artistica che meriterebbe di essere studiata nelle scuole, e non solo quelle di recitazione: “Una storia di profonda ostinazione” le dice l’intervistatore, ma lei ribatte: “La parola giusta è ossessione. Ho la malattia di voler essere un’attrice. L’ho scritto sul diario a 8 anni: ‘Io un giorno sarò un’attrice e la mia vita sarà un film’. Eccomi qui, ce l’ho fatta”. Ma come ci è arrivata? È questo che vi farà piangere e ridere mentre la ascoltate. Le difficoltà non sono mancate, fin dal principio: “Una aiuto regista, a 18 anni, mi disse che non avrei mai fatto l’attrice perché non ero abbastanza bella”. In quanti avrebbero avuto la forza di andare oltre a un giudizio così feroce? Pochi. Forse pochissimi. Lei sì. Così adesso gode, giustamente, ai riconoscimenti che si è conquistata: “Vado agli appuntamenti a Los Angeles e mi dicono: “You are so beautiful”. E ride, ma con l’ingenuità di una bambina che lo sapeva da sempre.
Ma non è l’arrivare a sentirsi dire che è bella la meta che cerca, almeno non solo quella, quanto invece il sentirsi riconosciuta per quello che è: una grande attrice. Tuttavia, anche prima della serie americana, gli indizi c’erano tutti. Ad accorgersene per primo (e finora unico) era stato il critico Franco Cordelli che la definì “la vera rivelazione” di uno spettacolo teatrale che non ha mai conosciuto repliche. Come mai? Perché avrebbe rischiato di cadere nella follia: “Facevo ogni giorno tre ore di preparazione emotiva per andare in quelle zone di verità e dolore” spiega nel podcast. Per mesi, aggiunge, “durante la giornata non andavo in zone di felicità o leggerezza. Ho chiuso i rapporti con tutti i miei amici, non ricevevo telefonate, mi ero isolata per comprendere le ragioni del personaggio”. Tanto che rinuncia a ogni offerta per tornare in scena con quell’opera: “Non posso più attraversare quell’inferno tutte le sere”. Persino la sua analista la mette in guardia: “Lei rischia di oltrepassare il limite”. L’ossessione, ricordate? Talmente forte che “una mattina, dopo mesi di tournée, avevo una frezza (una ciocca, nda) di capelli bianchi in testa”.
L’intervista prosegue e Malcom Pagani la gestisce con grande maestria: sollecita e si ritrae al momento giusto, aggiunge aneddoti personali, non per mettersi in mostra ma per creare empatia con l’interlocutore, e poi fa quello che preferisco in un intervistatore: si inabissa, sembra sparire, apre spazi senza avere la presunzione che sia necessaria la sua presenza. Eppure c’è, si sente, si percepisce dagli “uhm”, “eh”, “ah” in sottofondo, per poi esplodere a sua volta, finito uno splendido sfogo di Sabrina, in un liberatorio: “Potentissimo!”. Anche perché cosa si può aggiungere alla descrizione che la Impacciatore compie del suo modo di recitare, in linea con gli anglosassoni e l’immedesimazione estrema e distante dall’emulazione della realtà degli italiani? Leggete (ma se potete ascoltatela): “Che me ne fotte di imitarli? Certo che li saprei fare bene (i personaggi, nda). A me quello che mi fa impazzire è di cercare di capirli, attraversarli, essere attraversata, essere modificata, amare la vita un po’ di più, sentirmi meno stupida, meno sola, di non poter giudicare nessuno e capire tutti. È droga. Io non mi faccio le pere perché sono un attrice”. Potentissimo! che altro aggiungere?
Nella descrizione delle difficiolltà che incontra, inoltre, non c’è mai un accenno alla stanchezza, alla frustrazione, al pensiero di mollare. Alla disperazione sì, ma passeggera come un acquazzone estivo che apre uno squarcio di sereno nel cielo. Come quando descrive la preparazione a un ruolo che desiderava con tutta se stessa e alla fine le è stato soffiato: per 15 giorni vive come il personaggio, zoppica come lui, per andare ai provini si cuce i vestiti da sola, compra una borsa di una nomade a Porta Portese, scrosta le mollette per i capelli, prende le scarpe e di notte, convinta non fossero abbastanza vissute, scende in strada e ci passa sopra più volte con il motorino (e dopo averci cosparso sopra un po’ di ketchup). Quel ruolo è suo, non possono esserci dubbi. Il provino va alla grande. Emoziona tutti. È certa che sarà lei la protagonista. E invece no: Penelope Cruz ha letto il copione e la produzione, vista la portata mediatica del personaggio, sceglie lei. “A piccole’, te devo dà na brutta notizia” le confessa al telefono la sua manager e lei scoppia a piangere. Le lacrime dureranno due mesi. Un acquazzone. Violento, ma che lascia spazio ancora una volta al sereno grazie all’ironia: “L’ho ribattezzata Penelope “Puz” e da quel momento non riesco più a dispiacermi”.
È il momento di affondare e Pagani, sornione, non si lascia scappare l’occasione: “Sai che sei la sosia di Monica Vitti e Anna Magnani?”. Colpita e affondata. Sabrina scoppia in lacrime, dice che sono per lei più che dei riferimenti professionali (“Nannarella la amo come si ama la maestra”) e racconta che in molti la accostano a questi mostri sacri del cinema: “Scola mi spiegò che le ricordavo Monica Vitti e anche Mike White mi disse: “You know Sabrina, you remember me Anna Magnani”. È la verità. Non ci sono altre attrici in Italia che, come lei, sanno emozionare in modo così naturale e intenso passando dalla comicità alla tragedia. Servivano gli americani per certificarlo? Evidentemente sì. Ma per essere l’intervista più bella dell’anno (e tra le più belle di sempre) era necessario ancora qualcosa, come la totale connessione tra vita reale e cinema. Ce lo dimostra quando spiega il provino per White Lotus, preparato in un solo giorno (domenica) tra mille peripezie e con l’aiuto degli amici. Si presenta e si gioca il tutto per tutto di fronte al regista: “La prima scena l’ho fatto tanto ridere. La seconda scena l’ho fatto tanto ridere. La terza scena lui stava zitto, l’ho guardato e aveva le lacrime”. I giorni seguenti, quando le arriva la conferma di essere stata presa, la prima chiamata la fa alla madre che si lascia andare a un grido di dolore e di amore: “Grazieee Enea!”. È il nome del papà di Sabrina, venuto a mancare soltanto un mese prima.
Adesso tutti la cercano per averla ospite, tutti la vogliono in un loro film, tutti la esaltano con recensioni entusiastiche, ma lei non dimentica “il piano stretto del mio volto dentro la tazza del cesso” di quando, per pagarsi gli studi di recitazione, ha lavorato come donna delle pulizie. Adesso ride, ride come una pazza, come la bambina di 8 anni che scrisse sul diario ‘io un giorno sarò un’attrice e la mia vita sarà un film’. Ride e gode, senza falsa modestia, stupita lei stessa di dov’è arrivata: “Oggi sono a Hollywood! Scusa ma non riesco a resistere, ma che ne sapevo che un giorno sarebbe successo?”. Eppure, nel finale, ci fa capire che non poteva andare altrimenti: “Se osservo la mia vita e osservo tutto quello che ho investito, dato, creduto, sacrificato, amato… l’amore torna sempre”. Non solo è tornato da lei, ma ce lo ha restituito in questa splendida intervista che andrebbe salvata e riascoltata ogni volta che abbiamo dei dubbi mentre cerchiamo, fra mille ostacoli, di raggiungere i nostri obiettivi personali e professionali.