Direte, a che serve una recensione della Biennale di Venezia a scoppio ritardato, dopo averne lungamente parlato e scritto nei giorni della pre-inaugurazione stampa? La verità è che, come la vendetta, certe mostre vanno servite fredde, superato l’impatto emotivo e la fatica fisica di un’inesausta maratona tra padiglioni, eventi off, cerimonie e quant’altro ci ragioni meglio, diventi più impietoso, cinico e divertente. Un fatto va ribadito: l’edizione 2022 era particolarmente attesa dopo tre anni di stop e una precedente non proprio memorabile. Attesa soprattutto per la direzione di Cecilia Alemani, prima donna italiana alla guida della Biennale Arte, lombarda di nascita, newyorkese di adozione come il marito Massimiliano Gioni (che fu direttore nel 2013). Alemani ha subito capito ciò che nel 2009, quando mi fu affidata la curatela del Padiglione Italia, mi fu ben chiaro: il lavoro lo fai prima di tutto su te stesso, gli artisti non dico che sono intercambiabili ma quasi. Preceduta da un’imponente campagna stampa sul personaggio, Cecilia ha posato come una modella vestita da Stella McCartney con una predilezione per le scarpe fetish. La persona giusta al momento giusto, ha scelto la strada di una biennale al femminile, prendendosi responsabilità e merito dell’appuntamento con la storia, cercando di mediare, talora bene talora così così tra l’attitudine dello storico europeo che indaga le radici nel ‘900 e il curatore americano invischiato nel pantano del politicamente corretto. Come sempre accade ci ricorderemo di lei e non tanto delle opere.
A noi francamente non interessa metterci dalla parte del torto dopo essere stati per decenni se non secoli dalla parte della ragione, quando alla Biennale (e nei musei) entravano solo gli artisti maschi e ora siamo contenti che l’arte al femminile sia maggioritaria, non fosse altro che per un risarcimento. Non ci piace invece che il “casting” si sia spinto verso prodotti che in altri tempi a Venezia non sarebbero mai arrivati, così come certi giocatori non avrebbero giocato in Nazionale, ma vista la penuria ci arriva anche Jorginho. Sarà che siamo figli della cultura punk, ma questo trionfo dell’artigianato popolare ci fa veramente schifo. “Questa è una chitarra, suona” è sempre stata la nostra massima, abbiamo lottato per liberarci delle aberrazioni folk e ora ce le ritroviamo in una grande mostra “costretta” a dar spazio alle minoranze etniche e all’antropologia degli sconfitti. Oh, ma dove erano questi e queste non dico quando da noi bazzicavano Leonardo o Michelangelo, ma anche solo Burri o Fontana. Talvolta sembra di stare al Brico Center del terzo mondo, con esiti formali piuttosto sfigati diciamolo e tutto ciò solo per accontentare o risarcire chi al pranzo di gala dell’arte parteciperà una sola volta e poi mai più.
Per favore (lo dico a me stesso) non entrare nella polemica “cercasi maschio bianco eterosessuale” (aggiungerei anche di destra non fosse davvero troppo) perché questa tipologia umana o subumana è stata cacciata dal mondo dell’arte progressista e la sua unica chance di sopravvivenza è diventare una rarità come il Gronchi Rosa. Rubo le parole, pubblicate su “Il Foglio”, dell’amico Camillo Langone: “Fai quadri bellissimi ma possiedi un pisello? Affogati. Più che un criterio artistico mi sembra un criterio zootecnico. Mi consolo col titolo della mostra, “Il latte dei sogni”, che sarebbe una citazione surrealista ma che senza volerlo introduce un fatto molto reale: le donne il latte possono soltanto sognarselo, senza gli uomini”, insomma lo lascio esprimere a lui il fastidio non per la sconfitta delle quote azzurre ma perché l’arte e la cultura dovrebbero viaggiare su pianeti diversi, premiare il talento e basta senza preoccuparsi del sesso, pur sapendo che non sarà più così e dobbiamo mettere in conto un lungo periodo afflitti da tali rotture di coglioni.
Contesto, invece, radicalmente l’assegnazione dei premi a riflettere l’ipocrisia dell’arte contemporanea e del suo sistema. Intendiamoci, i due padiglioni prescelti, Gran Bretagna e Francia con due allestimenti molto narrativi e musicali realizzati dalle artiste Sonia Boyce e Zineb Sedina, sono piuttosto belli, a differenza del riconoscimento scontato assegnato all’americana (nera) Simone Leigh spinta dal messaggio di Joe Biden, “congratulazioni per la tua storica partecipazione al Padiglione Stati Uniti. Devi esserne molto fiera, io e la first lady siamo onorati che tu possa rappresentare la nostra Nazione in un’esposizione così importante”. Ebbene, quello spazio che fu, tra gli altri, di Bruce Nauman, Robert Gober, Jenny Holzer, Mark Bradford, è stato trasformato in una specie di capanna dello zio Tom o peggio di Mame da Via col vento, con orride sculturacce in stile afro. Non basta all’arte rappresentare il mondo, lo deve anche elaborare e la forma ha la sua importanza. Sennò parliamo d’altro. Il radicalismo chic delle donne bianche premia chi è sempre stato escluso, guardandolo come un animale da compagnia. A completare il lotto, insigniti anche il padiglione Uganda, la pittrice inuit, la femminista militante e il ragazzo franco libanese, solo maschio della compagnia.