Non solo paninari (che è una citazione di una trasmissione televisiva dell’epoca – Nonsolomoda) la chiusura di Burghy di San Babila (marchio storico poi comprato da McDonald’s), il 6 dicembre, segna la fine di un’epoca della quale era rimasta soltanto la schiuma come quando l’onda di risacca di ritira dalla battigia. Fu l’epoca in cui la moda, l’appartenenza, lo stile in senso ampio (derridiano di provenienza nicciana) si era fatto vulgata e camminava per le strade spargendo identità, fittizie vero, ma sempre più genuine e ingenue rispetto agli influencer virtuali: la moda, allora, rappresentava una vita adolescenziale a tutto tondo che comprendeva musica, locali da frequentare, architettura del pensiero e donava un abbozzo di senso a quella confusione caotica che è l’adolescenza adesso in mano ai mille rivoli di un post, di un tweet, di una foto su Instagram. È la fine della generazione X, termine coniato da Douglas Coupland, che adesso quasi coincide con i boomer, che, in termini aulici, vuol dire – ho scoperto da poco – significare vecchi rincoglioniti e io c’ero, andando in pellegrinaggio a San Babila per vedere sta minchia di moto, la Zundapp, che non aveva alcun senso: il marchio motociclistico chiuse nel 1984 mentre per le strade iniziava a sfrecciare luminosa la Honda ns 125, il primo due tempi dalle prestazioni iperboliche; perché la Zundapp divenne la moto dei paninari è un mistero che soltanto Roberto D’Agostino potrebbe svelare, immerso anch’egli in quell’epoca, che con la distanza e l’ironia necessaria cercava di raccontare cosa stava succedendo nel look non solo adolescenziale.
Perché era ovvio che il “paninaro”, con il suo Monclair, i suoi Levi’s 501, le sue cinture El Charro, le sue Timberland, ma anche i suoi Henry Lloyd, i suoi Top Gun Avirex - i bomberini della stessa marca, invece, accoppiati ai Dr Martens o agli stivaletti Cult, appartenevano alla narrazione Dark-Cure, mentre Chiodi, borchie, stivali da motociclisti erano dei metallari; l’unico brand che attraversava i tre stili furono gli stivali Camperos – dicevo era ovvio che i paninari fossero lo stato embionale degli Yuppies, meravigliosamente raccontati dai Vanzina e messi in edicola non solo dal giornaletto “Paninari” (edito da quelle edizioni Lo Squalo che ci diede tante soddisfazioni con i fumetti porno), ma soprattutto con l’apparire di Capital e Class, mensili patinati grazie ai quali qualsiasi ragioniere del catasto o macellaio o sfasciacarrozze iniziò a sentirsi un imprenditore di se stesso.
Con la chiusura di Burghy a San Babila – soltanto chi non conosce la nostra storia recente si permette di chiamarlo McDonald’s – finisce un mondo, quello dell’edonismo reaganiano coniato sempre da Dago in versione lookologo in “Quelli della notte”, in cui il paninaro era esposto nel museo dei nostri avatar quotidiani insieme non solo ai dark e ai metallari, ma insieme all’intellettuale engagée con tweed, velluti, desert boots Clark; insieme al self made man wannabe in doppiopetto e montone e Y10, e insieme al Dogui – l’indimenticato e indimenticabile “cumenda”; insieme a tanti personaggi che andarono a finire nella grande galleria del Drive-In di Antonio Ricci. Erano anni in cui, ancora, ci si poteva scegliere una identità sociale a 360 gradi, secondo mezzi, aspirazioni, possibilità, intelligenza o stupidità; erano anche gli anni dei mondi di nicchia: i Mod, i Rockabilly, i Marlboro Man (tentativo un po’ fallito di importare l’estetica Redneck e Hillbilly in Italia, anche se qualcosa, come le camicie di flanella a scacchi, confluirono nei paninari, possibilmente sotto lo Schott – unica accoppiata permessa sia ai paninari che ai metallari) o i surfer con gli Ugh e gli Ugg (in principio erano due marchi diversi), le camicie Aloha e le t-shirt stampate sul retro.
No, la chiusura di Burghy non rappresenta solo la fine dei paninari, rappresenta la chiusura di un’epoca nella quale l’adolescenza era un modo di sperimentare la vita e di fare ricerca, di scoprire la propria identità, di passare da una comitiva all’altra, da un genere musicale all’altro, da un film all’altro. Però, infine, diciamola anche la verità da storico del costume autodidatta, Burghy e McDonald’s rappresentavano essi stessi la fine di quell’epoca, globalizzavano il “paesino” (e ci riuscirono), e infatti, nelle stupende narrazioni e di successo che riferiscono a quell’epoca – due su tutte “Stranger Things” e “Riverdale” - non appaiono mai i fast food, ma gli intramontabili Diner, nei cui “vagoni” si sedevano tutti, indifferentemente: un esempio? Fonzie e Ricky Cunnigham.
I paninari e quegli anni Ottanta furono l’ultimo apparire di qualcosa che affondava le sue radici negli anni Sessanta, nel dopoguerra. Erano una imitazione, ma un’imitazione che a volte sfiorò la verità. E noi giravamo per le strade, cambiando look di continuo, alla ricerca di quella verità che ogni tanto scorgevamo in un angolo di asfalto bagnato che sapeva di libertà. Oggi l’avventura cittadina è finita, ci sono scatole chiuse illuminate da piccoli schermi dove clicchi per acquistare qualcosa indossato da una influencer per soldi. Con Burghy chiude l’imitazione di una ricerca di identità che a volte sfiorava la verità. Di meglio non saprei dire.