Giorgia Meloni non deve temere uno spauracchio tradizionale della nostra politica, lo spread. Nonostante tutti gli avvertimenti di politici di opposizione, media internazionali, agenzie di rating come Moody’s sino ad ora il governo di centrodestra ha beneficiato di un abbassamento del differenziale Btp-Bund a dieci anni rispetto alla fase finale dell’era Draghi. Vuoi perché il punto di riferimento, la Germania, versa in cattive acque tra crisi energetica e industriale; vuoi per l’effetto-Truss che ha ispirato un surplus di cautela nel governo di centrodestra; vuoi per la manvora conservativa e decisamente non rivoluzionaria dell’esecutivo (ammesso esistano manovre rivoluzionarie) scritta da Giancarlo Giorgetti. Forse per un combinato disposto di questi tre fattori il governo di centrodestra sembra alzare, giorno dopo giorno, l’asticella del suo sostegno al mondo industriale e finanziario. E i dati sullo spread lo testimoniano. Dal 25 settembre ad oggi, oltre 60 i punti di riduzione del differenziale di rendimento Btp-Bund.
In altre parole, da una differenza media del rendimento sui titoli, dunque del maggior rischio con cui i mercati valutano l’Italia rispetto alla Germania, del 2,6% siamo passati a una media tra l’1,9% e il 2%. E buona parte di questa riduzione è dovuta al calo di rendimento del titolo italiano, dunque al suo minor rischio, passato dal 4,3% pre-elettorale al 3,8% odierno. Lo spread, non essendo un’unità di misura assoluta ma un differenziale, può variare ovviamente sia al calo di rendimento del titolo italiano che all’aumento del rischio di quello tedesco, bene-rifugio per eccellenza in Europa. Il fatto che sia sceso per la prima delle due possibilità è un punto a favore del sistema-Italia.
Il punto dirimente è, in quest’ottica, di tipo politico. I mercati tifano la stabilità politica e la certezza, a qualunque sistema di governo o ideologia dei partiti al potere essa sia riferita. Non esistono, per investitori e finanza, “salvatori della patria” degni in quanto tali della fiducia incondizionata. E se Mario Draghi è apparso per lungo tempo come l’uomo che – indubbiamente – tale identikit lo impersonava al meglio la sua frastagliata coalizione di governo e i litigi interni, unitamente alle difficoltà del fu “Governo dei Migliori” nell’evitare il ritorno del trend rigorista in Europa e della stretta monetaria della Bce, hanno fatto dell’era Draghi, paradossalmente, un’era di percepita instabilità. Misurabile dai dati su titoli di Stato e spread.
Dal 13 febbraio 2021, giorno di insediamento del governo Draghi, al 25 settembre, cosa più importante, il tasso di interesse del Btp, ovvero il rischio scontato dagli investitori che puntano sull’Italia, è quasi settuplicato. Da un tasso medio dello 0,643% di fine gennaio 2021 si è giunti al 4,33% di fine maggio 2022. Nessun effetto Draghi, come ha anche fatto notare con una punta di malizia Carlo Cottarelli in una recente intervista. Il combinato disposto con l’inflazione ha inoltre fatto partire scenari complicati sulla sostenibilità del debito e aperto all’aumento dello spread, cresciuto oltre tre volte da quote tra i 70 e gli 80 punti base della fine del governo Conte II ai circa 260 punti della fase pre elettorale.
Il governo Meloni ha, in quest’ottica, restituito prevedibilità all’agire politico italiano, una fattispecie che i mercati hanno decisamente apprezzato. Ad oggi il governo, nonostante una manovra definibile come una “tisana” (Giorgio Mulé, pezzo grosso di Forza Italia, dixit), ombre recessive sull’Europa, il Pnrr che necessita di adeguamenti e ancora nessuna vera svolta su dossier chiave come Tim, Alitalia, Mps, beneficia del “voto” favorevole degli investitori. Un monito al “partito dello spread” sempre pronto, come fu col governo Conte I, a usare i differenziali col Bund come arma politica e una risposta alla visione eccessivamente semplicistica di molte agenzie di rating viene, dunque, da questi dati. Ma guai a cantare vittoria: non è con il calo dello spread che si fa politica economica, si gestiscono le questioni fiscali, si crea la crescita. Lo spread è spauracchio politico, non deve diventare giustificazione per l’inazione. Pena il condannare al declino un sistema-Paese già scosso da diverse crisi dal Covd in avanti.