“La rosa purpurea del Cairo” è il film di Woody Allen in cui i protagonisti escono dallo schermo per entrare nella vita reale. A Paolo Virzì -secondo chi scrive il più grande regista italiano vivente- autore di capolavori come “My Name is Tanino”, “Caterina va in città”, “Ferie d’agosto” e molti altri, è accaduto il contrario: è lui, il regista, ad essere entrato dentro uno dei suoi film. Perché solo in un film di Virzì, autore che ha saputo attualizzare gli stilemi della commedia all’italiana, può accadere quello che è accaduto qualche sera fa in un ristorante romano, con il regista che incontra per caso l’ex moglie Micaela Ramazzotti attovagliata con la figlia della coppia e, soprattutto, con il fidanzato attuale, quel Claudio Pallitto di professione “personal trainer” tatuato come un trapper e gonfio come un pallone aerostatico, nemesi vivente di quel mondo banalmente chiamato “radical chic” che a Roma, da qualche decennio, si è fagocitato l’intero cinema italiano. Insulti, piatti spaccati, graffi, sedie lanciate, commensali terrorizzati, carabinieri, e alla fine le immancabili denunce: tutto è grottesco e arci-italiano in questa vicenda, come grotteschi e arci-italiani sono i personaggi e le vicende del cinema di Virzì. Intendiamoci: qui non intendiamo prendere posizioni né esprimere giudizi per il semplice fatto che non conosciamo nulla di quali fossero le dinamiche interne alla ex coppia. Qui intendiamo celebrare, in tutta la sua magnificenza, la bellezza della vita che tutto d’un tratto, in una sera d’inizio estate, diventa cinema, dal momento che la Ramazzotti di quei film è stata spesso la protagonista e pure il Pallitto –per un ulteriore, straordinario arabesco del destino- vi ha recitato due volte come comparsa.
Comprendiamo lo stato d’animo attuale di Virzì. Vedere la propria ex, molto probabilmente ancora amata, nelle mani di un altro fa male, molto male, soprattutto se questo “altro” proviene da una galassia infinitamente distante dalla nostra. Ma fossimo in lui saremmo segretamente felici, o meglio, proveremmo una sorta di lussuria del dolore. La sua carriera era arrivata a un punto morto, gli ultimi film non erano un granché: il deludente “Notti magiche” seguito da “Siccità’”, una bizza senile. Forse, mettendo in scena la sua storia, il regista ha finalmente l’occasione di rilanciarsi, di imprimere quell’ultimo colpo di reni per raggiungere, finalmente, quella strameritata candidatura agli Oscar troppe volte solo sfiorata. Un film sul triangolo che non ti saresti mai aspettato, che non avresti mai considerato, il Venerabile Maestro che vede il reduce di Tamarreide concludere il suo errare ai margini della Società dello Spettacolo nel caldo abbraccio dell’ex Musa: e da li il delirio, e poi il rimpallo delle responsabilità, le versioni su cosa sia accaduto che contrastano e che ricordano in modo esemplare “Rashomon” di Akira Kurosawa, altra pietra miliare cara a ogni cinefilo che si rispetti (e, incidentalmente, tra i film preferiti dello stesso Woody Allen).
Nel film del maestro giapponese, si racconta dell’uccisione di un marito per mano di un fuorilegge; vengono messe in scena le diverse versioni dei fatti raccontate dai diversi protagonisti della vicenda, la moglie, il presunto omicida, il marito ucciso attraverso una medium, un taglialegna di passaggio che ha assistito alla scena. I loro resoconti sono simili, ma non identici, ognuno smussa la propria colpa per darla all’altro, e alla fine resta l’incertezza su come siano andate davvero le cose, metafora dell’impossibilità del cinema, e dell’uomo moderno, di giungere a una qualunque forma di verità assoluta. Forse anche noi non sapremo mai che cosa è successo davvero, in questa storica microscopica eppure rivelatrice di una condizione esistenziale. Tuttavia, una lezione di vita la possiamo ugualmente ricavare. Non importa chi sei, quanto successo hai, che traguardi tu possa aver raggiunto o quanti soldi hai in banca. Due dorsali grossi come “du’ ali de pipistrello” (cit.) conservano su alcune donne un potere mistico che noi mortali non saremo mai in grado di comprendere. In conclusione, ci preme sottolineare come il mondo Radical Chic di cui sopra abbia già alzato un cordone sanitario attorno a “Paolo”, attraverso un articolo di Repubblica in cui si invoca il rispetto della privacy del regista; e questo nonostante il comunicato stampa di Micaela Ramazzotti lasci intravedere uno scenario familiare non proprio compatibile con le istanze neo-femministe e anti-patriarcali su cui è solitamente schierato l’illustre giornalone. Tra l’altro: immaginate cosa sarebbe accaduto se fossero stati Giorgia Meloni e Andrea Giambruno a prendersi a pizze in faccia al ristorante. Immaginate quanto rispetto della privacy avrebbe avuto Repubblica nei loro confronti.