C’è un momento di Sanremo 2024 che è già passato alla storia del Festival: è quello in cui l’inviata di una piccola radio locale del pavese, durante la conferenza stampa di Geolier, gli chiede se non sente “di avere rubato un po’ la vittoria di ieri, perché oggettivamente c’erano delle esibizioni come quelle dei Santi Francesi e di Angelina Mango che… Insomma, io fossi in te mi sentirei un po’ a disagio”. La replica di Geolier è da manuale: “Sono io che mi sento a disagio a rispondere a questa domanda”. L’accusa neanche tanto velata di avere imbrogliato – o comunque di non aver meritato la vittoria – nasceva dal fatto che molti giornalisti avevano scoperto della sua esistenza proprio a Sanremo, perché prima di allora era del tutto estraneo ai circuiti generalisti. Eppure la sua popolarità era già immensa. Il suo album precedente, Il coraggio dei bambini, era stato il più venduto del 2023, tanto per dirne una; un trend che non si è mai invertito perché il suo ultimo lavoro Dio lo sa, uscito settimana scorsa, è stato certificato disco d’oro in pochi giorni. E per chi non si fidasse della genuinità dei dati di streaming, è sufficiente dare un occhio a quelli del suo tour estivo, che si apre con tre date sold-out allo stadio Maradona di Napoli, un record assoluto. Chi sia Geolier e da dove venga ormai lo sanno tutti: l’infanzia a Secondigliano, l’adolescenza a lavorare per poche centinaia di euro in una fabbrica di lampadari, le battle di freestyle, il nome d’arte che significa “secondino” in francese. Ma com’è possibile che un rapper emergente, che scrive i suoi testi in napoletano e prima di Sanremo era apparentemente sconosciuto al grande pubblico, sia arrivato a risultati così clamorosi?
Non dipende solo dal talento di Geolier o dall’entusiasmo dei suoi conterranei partenopei, ma anche dal legame speciale che da sempre c’è tra la scena rap e la città di Napoli. Il genere è arrivato a Napoli negli anni Ottanta, grazie anche alla presenza di una delle principali basi della marina Usa in Europa: i militari afroamericani hanno importato l’hip hop sul territorio, un po’ come era successo in precedenza con il jazz e il funk (Renato Carosone, Pino Daniele e tutti i loro fan ancora ringraziano). Quando negli anni Novanta i primi rapper nostrani cominciarono a scrivere testi in italiano, però, la scena campana imboccò una strada leggermente diversa: scelse di esprimersi nella sua lingua madre, ovvero il napoletano. La città divenne uno dei centri nevralgici dell’hip hop nella penisola, dando i natali a realtà eccezionali come Clan Vesuvio, 99 Posse, La Famiglia, Speaker Cenzou, Clementino, 13 Bastardi, Fuossera. E anche se al di fuori dei confini regionali erano in pochi a capire il significato delle loro rime, spopolavano comunque. Il napoletano è una lingua tronca, proprio come il francese e l’inglese, e si presta magnificamente alle metriche del rap: a livello tecnico, quindi, spesso i rapper napoletani risultavano più capaci e sofisticati dei colleghi. E così accade ancora oggi per Geolier, anche se gli standard stilistici dell’hip hop si sono evoluti e sono cambiati parecchio con il passare degli anni.
Negli anni Duemila, la popolarità del rap partenopeo tra gli appassionati non ha smesso di crescere grazie soprattutto a un duo che raccontava senza filtri la strada e i suoi risvolti, anche i più dark: i Co’Sang, oggi noti a livello solista come Luché e Ntò. Le dinamiche che si osservavano nelle periferie napoletane erano incredibilmente simili a quelle oltreoceano, e questo rese ancora più credibile e incisiva la loro narrazione: i loro due album Chi more pe’ mme (2005) e Vita bona (2009) sono considerati dei veri capolavori dagli appassionati. Proprio Luché, tra l’altro, che oggi è uno degli artisti più amati e stimati dal pubblico hip hop, è il fondatore della Bfm Music, l’etichetta indipendente che ha scoperto Geolier e per prima lo ha messo sotto contratto. La credibilità e la fan-base che il suo mentore gli ha portato in dote lo hanno senz’altro aiutato a farsi notare subito dai colleghi: il suo album di debutto Emanuele – del 2020, quando aveva appena vent’anni – vantava i featuring di Emis Killa, Gué e Lazza, oltre che dello stesso Luché.
Intorno al 2010 Napoli ha continuato ad essere un punto di riferimento imprescindibile per i fan dell’hip hop italiano e delle cosiddette sonorità urban (un termine che in realtà bisognerebbe evitare di usare, ma di questo parleremo in un’altra puntata di Rapsplaining, magari). Nel 2014 Rocco Hunt vince Sanremo Giovani e traghetta il genere nel mainstream, ma sono le nicchie a contribuire ancora di più all’esplosione del genere. Cantanti come Liberato, La Niña, Tropico, Livio Cori o CoCo, che hanno fuso l’R&b con la melodia napoletana, hanno generato un’estetica e un immaginario, tanto da aver traghettato tutta la città verso una nuova dimensione di hype: il turismo dei giovanissimi è tornato a fiorire anche grazie a quest’aura di coolness. Non si tratta solo di turisti italiani, tra l’altro, perché nel frattempo è arrivata anche un’altra grande rivoluzione nel panorama della cultura pop: il successo di Gomorra, una serie girata a Scampia e recitata prevalentemente in napoletano, che però ricorda da vicino quelle prodotte dai rapper americani, come Power di 50 Cent. E all’improvviso anche gli artisti stranieri (e di conseguenza i loro fan) si innamorano della città, con i francesi Pnl, Lacrim e Sch che girano i loro video nei dintorni delle ormai celeberrime Vele (beccandosi anche qualche critica perché, come ricorda sempre anche Geolier, Scampia non è uno zoo).
E arriviamo ora al 2020: gli anni di Geolier, appunto. Ma anche gli anni di Enzo Dong, Lele Blade, Vale Lambo, J Lord, MV Killa, Samurai Jay, Yung Snapp e di un sacco di altri artisti emergenti o già noti. Sono anche gli anni di Mare Fuori, che ha portato sempre più giovanissimi a nutrire una passione smodata per la cultura pop partenopea, e soprattutto per i suoi côté più street. E quelli dello scudetto del Napoli, che ha generato una festa di piazza durata mesi, a cui tutti avrebbero voluto partecipare. Il napoletano non è più una lingua aliena: tutti hanno imparato a capirla, a cantarla, a masticarne i modi di dire. La troviamo in classifica, in tv, al cinema, nello sport. Anche chi non è del posto si sente napoletano dentro, vedi Angelina Mango, che con Che t'o dico a fa' ha dichiarato il suo amore per la città. Insomma, il successo di Geolier non è poi così misterioso e dubitabile come una parte della sala stampa di Sanremo avrebbe voluto farci credere. E quei tre stadi Maradona strapieni se li merita tutti (e ha appena ha annunciato che il 25 luglio 2025 terrà un grande evento all’Ippodromo di Agnano, i biglietti in vendita dalle 12 di sabato 22 giugno su TicketOne), perché è lì in rappresentanza di un movimento sotterraneo che spinge da decenni per arrivare in superficie, e finalmente ce l’ha fatta.