L’abbiamo visto a Sanremo cantare in napoletano e rispondere in conferenza stampa alle domande più faziose dei giornalisti, che non vedevano l’ora di farlo incappare in qualche strafalcione. Eppure, è stato Geolier a dare una lezione di professionalità ed eleganza, ponendosi in modo rispettoso e pacato contro chi se lo aspettava sguaiato e chiassoso, perché questo è lo stereotipo del napoletano, ahimè. Dopo il festival si è chiuso in studio a scrivere e venerdì 7 giugno è stato pubblicato l’album che ne è uscito fuori, Dio lo sa, il suo terzo disco dopo Emanuele e Il coraggio dei bambini, presentato in anteprima mercoledì 5 giugno in Piazza Ciro Esposito a Napoli, un piccolo regalo per la sua gente. Si può affermare senza esagerazione che Geolier è un simbolo della nuova Napoli e infatti già ha i suoi murales dedicati proprio come quelli a Diego Armando Maradona. Questo è un ruolo che Emanuele, così si chiama all’anagrafe, ha deciso con forza di ricoprire, anche se ogni corona ha un peso per chi la porta e lui lo sa bene, come canta in Per sempre (“Ncuollo tengo na città ‘ca forse me pesa, Pecché nn'songo i' ca 'a mantengo, essa ca mantene a me, sì”). Geolier è un rapper napoletano prima ancora che essere un rapper italiano; infatti, canta esclusivamente in dialetto con l’intenzione di portare l’Italia a Napoli e non il contrario. La scelta della lingua è sempre un fatto identitario che apparentemente sembra escludere tutte le persone che non capiscono quegli idiomi e sarebbe vero se parlassimo di una lingua straniera. Il dialetto napoletano però è una lingua sentimentale, dove ogni parola oltre a un significato e un significante ha un sentimento corrispondente, per questo la musica di Geolier riesce ad arrivare comunque alle masse. In alcuni casi oltre al sentimento c’è anche un’immagine ben precisa, come quella del sole o del mare o della città stessa, che è sempre abbinata a un senso di serenità e benessere, tanto da identificare la lontananza a Napoli con la tristezza (“Guardo Napule 'a 'int'ô vetro 'e l'Emirates Songo triste comme si nun ce turnasse”). Certo se però si compie anche lo sforzo di leggere i testi, il piacere è altresì maggiorato perché le rime e i quadri che Emanuele propone sono carichi di poesia, ma mai in modo banale o da baci perugina.
In questo disco tutta la tradizione melodica napoletana, con i suoi temi e suoni, viene traghettata nel mondo moderno, che è quello globalizzato in cui l’hip-hop di origine statunitense è diventato il genere di spicco anche nel nostro paese, compiendo un’ibridazione culturale perfetta e piena di senso. Così i riferimenti tipicamente italiani si mescolano a quelli d’oltreoceano in modo fluido, passando dal campionamento di Love in Portofino di Fred Buscaglione a quello di I’m Wishing on a star dei Rose Royce, dai racconti di vita con Gigi D’Alessio a quelli di finzione di Al Pacino e Robert De Niro. La storia di Emanuele ha favorito questa sintesi in modo spontaneo, nato e cresciuto a Secondigliano in scenari da Gomorra, le tematiche gangsta non sono per lui un esercizio di stile, così come non sono posticci gli slanci romantici e un po’ malinconici da Classica Posteggia Napoletana, l’arte di intrattenere con la chitarra i commensali fra i tavoli di un locale. Tra la narrazione dell’emancipazione dalla strada tramite la musica e l’amore sempre complicato per la donna amata, Emanuele ha l’appoggio dei nomi più influenti della scena, da Sfera Ebbasta, Lazza, Shiva e Guè da Milano a Luchè, Yung Snapp, Mv Killa e Lele Blade in rappresentanza del Sud, oltre all’ospite internazionale del disco Maria Becerra, star argentina. A legare le tracce l’una all’altra è un dialogo tra Geolier e il cielo dove sta Dio, che tutto vede senza renderci partecipi del piano a cui stiamo prendendo inconsapevolmente parte. Quando a soli 23 anni hai già vissuto così tante esperienze da rendere il tempo una questione soggettiva (“nu minutu dura nu sicondo”), qualche domanda sul perché sia andata proprio così te la fai, confidando che questo mistero almeno Dio, lo sa.