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Perché l’appello “Free Baby Gang” ha unito la scena rap? Ve lo spieghiamo: da Geolier a Fabri Fibra, da Fedez a Marracash si rifanno al background della musica…

  • di Marta Blumi Tripodi Marta Blumi Tripodi

15 giugno 2024

Perché l’appello “Free Baby Gang” ha unito la scena rap? Ve lo spieghiamo: da Geolier a Fabri Fibra, da Fedez a Marracash si rifanno al background della musica…
Tutti parlano di rap, trap o hip hop, ma in pochi ne capiscono davvero. Così vi aiutiamo noi a comprendere meglio i fenomeni che hanno sconvolto la musica (e anche la società) negli ultimi anni con la nuova rubrica di Marta “Blumi” Tripodi, una delle più esperte in materia. Partiamo con il motivo che ha spinto Geolier, Marracash, Ernia e molti altri artisti della cena a lanciare l’appello “Free Baby Gang” per far uscire dal carcere il collega. E ricordatevi: se ascoltate questa musica e fate i bacchettoni non avete capito un caz*o…

di Marta Blumi Tripodi Marta Blumi Tripodi

Raramente la scena rap italiana ha un parere unanime su qualcosa, ma un argomento (anzi, un hashtag) in particolare sembra mettere tutti d’accordo: #FreeBabyGang. All’artista lecchese - vero nome Zaccaria Mouhib, 23 anni tra pochi giorni, italiano di origini marocchine - è stato di recente revocato il beneficio degli arresti domiciliari ed è quindi tornato in carcere, dove è in attesa di giudizio per il suo presunto coinvolgimento in una sparatoria. Su di lui pendevano già due condanne di primo grado, entrambe superiori ai quattro anni, ed è stato spesso additato dall’opinione pubblica come un individuo socialmente pericoloso, che cospirerebbe per traviare i giovani e condurli sulla cattiva strada. Eppure i colleghi rapper prendono le sue parti anche a rischio di mettersi contro i fan che, in un Paese tendente sempre più a destra, sembrano essere molto più forcaioli di loro. Cosa li spinge, quindi?

Baby Gang in carcere
Baby Gang in carcere

La storia di Baby Gang

La vicenda di Baby Gang comincia nel 2012, quando per non pesare su una famiglia già parecchio disastrata - sei fratelli e sorelle, genitori in grande difficoltà, soldi non pervenuti - decide che da allora in poi se la caverà da solo. A soli undici anni scappa di casa e comincia a vivere per strada, dormendo sui treni, sulle panchine, sul divano di qualcuno, dove capita. Dopo due anni di questa vita viene fermato e spedito nella sua prima comunità per minori: ne seguiranno altre a Milano, a Roma, a Rimini, nelle Marche, da cui scapperà spesso. Nel corso delle le sue fughe viene arrestato per piccoli reati, e proprio nel carcere Beccaria e poi nella comunità Kayros inizia a fare rap. È l’inizio della redenzione. Ma i segni di questa adolescenza estremamente tormentata restano: sviluppa una dipendenza da varie sostanze, abusa di psicofarmaci, e racconta che spesso le forze dell’ordine lo hanno picchiato e vessato durante i fermi e i periodi di detenzione, perfino quando era ancora un bambino. La sua vita cambia quando viene notato e la musica diventa una professione: a 19 anni la Warner, una multinazionale della discografia, lo mette sotto contratto. Da quel momento dichiara di avere messo la testa a posto, perché non ha più bisogno di campare di espedienti, ma i guai sembrano inseguirlo. Secondo gli inquirenti, non ha mai smesso di delinquere: gli vengono attribuiti numerosi reati, dalle rapine alle risse e perfino alle sparatorie (non entriamo ulteriormente nel merito della questione perché è lunga, complessa e soprattutto ancora in corso: se volete farvi un’idea, però, le pagine di cronaca ne hanno tenuto ampiamente traccia). Secondo lui, invece, è vittima di un doppio pregiudizio: da una parte vengono presi alla lettera nome d’arte, testi e videoclip anche se sono metaforici o narrativi e non parlano della sua vita reale, e dall’altra vogliono fare di lui un esempio per scoraggiare tutti gli altri ragazzi di seconda generazione, togliendolo una volta per tutte dalla circolazione. Come spesso capita, la verità potrebbe stare nel mezzo. È sicuramente vero che in passato ha fatto degli sbagli; è altrettanto vero, però, che la severità con cui viene trattato appare eccessiva, considerando che ci sono persone che si sono macchiate di crimini ben più gravi che sono a piede libero. 

Baby Gang
Baby Gang
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Il sostegno della scena

Alla luce di tutto questo, la scena rap aveva cominciato a mostrargli supporto fin da tempi non sospetti. Nel novembre 2021, ad esempio, Fedez lo aveva ospitato all’interno di una puntata del suo podcast Muschio Selvaggio, mentre nel febbraio 2022, quando era per l’ennesima volta in custodia cautelare, Marracash aveva incluso il messaggio “Free Baby Gang” all’interno del suo video ∞ Love. Sempre Marracash nel 2023 aveva trasmesso davanti a 80.000 persone un monologo registrato di Baby Gang durante il suo festival Marrageddon, e Fabri Fibra l’aveva voluto insieme a Emma Marrone per la riedizione della sua storica hit In Italia, aiutandolo nella definitiva consacrazione. Ma in passato ha collaborato anche con Salmo, Sfera Ebbasta, Tedua, Emis Killa, Massimo Pericolo e molti altri. Ha anche collaborato con diversi artisti stranieri come Jul, Gims, Morad, Jala Brat e Lacrim, e nel marzo 2024 è diventato il rapper italiano più ascoltato al mondo. D’altra parte in patria va fortissimo: il suo ultimo album L’angelo del male, pubblicato il 26 aprile scorso, ha debuttato al numero 1 della classifica Fimi ed è stato certificato disco d’oro in poche settimane, e questo nonostante non abbia potuto fare promozione dal vivo o rilasciare interviste perché si trovava ai domiciliari.

Free Baby Gang
Free Baby Gang

#FreeBabyGang

La revoca degli arresti domiciliari è avvenuta il 29 aprile, tre giorni dopo l’uscita dell’album, e ha fatto parecchio scalpore soprattutto per le sue motivazioni: un post sui social. È infatti accusato di aver comunicato “con un numero indeterminato di soggetti, pubblicando fotografie su Instagram, ove viene ritratto mentre impugna una pistola che punta verso l’obiettivo, ostentando il braccialetto elettronico”. La foto, in effetti, esiste, ma a detta dell’avvocato di Baby Gang è stata pubblicata dal suo staff: si tratta di un’immagine realizzata per la promozione di un singolo, durante uno shooting autorizzato dalla Corte di Appello, e la pistola sarebbe un oggetto di scena di un videoclip. Ed è proprio il videoclip in questione che potrebbe spiegare il perché la giustizia italiana si è sentita provocata e sbeffeggiata: Guerra, tra le altre cose, mostra immagini di ragazzi di seconda generazione che vandalizzano un’auto della polizia. Un chiaro omaggio alla celebre performance di Kendrick Lamar, rapper americano e premio Pulitzer, che nel 2015 aveva cantato la sua Alright nel 2015 sul tetto di un’autopattuglia, per protestare contro il razzismo delle forze dell’ordine. 

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La performance di Kendrick Lamar nel 2015
Videoclip di "Guerra" di Baby Gang
Videoclip di "Guerra" di Baby Gang

#FreeBabyGang

Non appena si è scoperto che era tornato in carcere, i tweet e le storie su Instagram con lo slogan #FreeBabyGang si sono moltiplicati all’interno della scena rap. C’è chi si è spinto anche più in là: Fabri Fibra, Marracash, Lazza, Gemitaiz, Madman, Rocco Hunt, Ernia, Geolier e Gué ci hanno messo la faccia, inviando un videomessaggio alle Iene a supporto di un collega e amico con un vissuto estremamente difficile. Ma c’è anche dell’altro, che magari il pubblico generalista non coglie. Abbagliati dallo scintillio e dal lusso dell’immaginario hip hop, è facile dimenticare che è una cultura che parte dal basso e che le sue radici affondano nell’antirazzismo, nel rispetto e nell’assenza di giudizio nei confronti di chi si trova costretto a vivere di espedienti. Gli artisti rap conoscono bene la storia e il background della loro musica, e non lo dimenticano, a differenza di molti fan dell’ultima ora, che probabilmente seguono e ascoltano il genere soprattutto per moda, e finiscono così per criticare i loro idoli per essersi schierati con un delinquente. Sarebbe bello, però, se la stessa solidarietà mostrata verso Baby Gang fosse estesa anche ad altri rapper in conflitto con le istituzioni: uno su tutti l’iraniano Toomaj Salehi, condannato a morte dal regime degli Ayatollah per i messaggi portati dai suoi testi.

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