Dovevo intervistare il rapper Baby Gang, che dagli arresti domiciliari, ingiustamente, è stato rimesso in cella. Il motivo è la pubblicazione di un post su Instagram dove tiene una pistola in mano. Peccato che sia un momento tratto dal video della canzone “guerra”. E non la sua vita vera. Una semplice promozione dell’ultimo disco L’angelo del male, già in vetta alle classifiche. “L’inasprimento del regime cautelare disposto dalla Corte d’Appello pare fondarsi su presunte violazioni della prescrizione del ‘divieto di comunicazione con terzi’ che Zaccaria Mouhib (vero nome di Baby Gang) avrebbe commesso in occasione dei contatti autorizzati con il proprio manager Marilson Paulo Da Silva, con il quale avrebbe concordato di promuovere l’uscita del suo ultimo disco attraverso la pubblicazione sul social network Instagram di alcune fotografie”. Foto, come si legge dall’atto, non postata da lui bensì dal suo staff. Ero in contatto con Niccolò Vecchioni, il suo avvocato, tutti e due eravamo molto critici verso questa punizione poco costruttiva a fronte di un comportamento che fino a quel momento era stato corretto (Baby Gang voleva fare il bravo e rispettare i domiciliari in pace). Improvvisamente mi viene come un’illuminazione. Perché non intervistare lui? L’avvocato.
Cerco su internet e vedo che di interviste Vecchioni ne ha concesse poche, un motivo in più per provarci. Oso, mi butto: “Posso intervistare lei?”. E lui mi risponde subito di sì. Da quel momento inizio a pensare a questo incontro, vorrei scrivere delle domande ma non lo faccio. Decido che sarà una chiacchierata, una conversazione vera, informale, dove sarò me stessa, non la “brava giornalista” che ambiscono a essere quasi tutte quelle che scrivono, ma una donna empatica, ovvero quello che voglio essere io. L’appuntamento è alle 15.30. Mi chiama la mattina stessa dopo aver inviato un messaggio che non leggo. Dobbiamo spostare alle 17 perché è impegnato in Tribunale. Per me va bene, perché ho fatto in modo che l’unico appuntamento della giornata fosse con lui. Un avvocato penalista fortissimo che difende la criminalità merita tutta la mia attenzione. Il mio concetto del bene è del male è assolutamente impopolare, mai influenzato dall’opinione più comune e prevedibile, che mira a mostrarsi giusta e “per bene” perché io ho ambito quasi sempre ad avere il coraggio di essere diversa e sbagliata. Sono nata ribelle e rivoluzionaria, mio malgrado, ho deciso quali erano le mie leggi in tutti i campi della vita e ne ho pagato le conseguenze a testa alta perché, a volte con le mie leggi, oltre a pagare ho vinto. Alle 17 in punto - io sono sempre puntualissima - davanti al suo studio la portiera dell’elegante stabile nel centro di Milano mi dice che non è ancora arrivato. Mi siedo fuori, su un muretto in marmo, e gli mando un messaggio. "Sto arrivando”, mi risponde. Nel frattempo faccio amicizia con la portiera romena chiedendole cosa pensa di lui: “Educato, gentile e bravissimo avvocato” mi spiega. Poi mi confessa di non essere né carne né pesce, ovvero di non sentirsi né romena né italiana, ma straniera in tutti e due i paesi. Una signora elegante uscendo dallo stabile mi riconosce e mi fa i complimenti per le mie interviste in tv. Amo sentirmi apprezzata pur non cercando mai approvazioni o facili consensi. Mi sembra sempre un miracolo che qualcuno possa capirmi.
L’avvocato sfreccia d’improvviso davanti a me in una lussuosissima e scintillante auto nera e accenna un saluto. Mi perdoni questo serio professionista, che combatte ogni giorno per la giustizia, se la donnetta che è in me pensa immediatamente che è un figo pazzesco. Ma se siamo qui a onorare la verità è giusto che io dica anche la mia stupida verità, ovvero che per un attimo sogno di essere seduta anch’io in quella macchina, portata a cena fuori in un bel ristorante, finalmente da qualcuno che rispetta la legge e guadagna bene e non dall’ennesimo fidanzato sfruttatore. Dimentico immediatamente queste mie bieche ambizioni e mi concentro sul fatto che l’avvocato Vecchioni mi ha appena inviato l’appello al Tribunale del Riesame di Milano per far sì che Baby Gang possa scontare la sua pena agli arresti domiciliari come già stava facendo. Dimentico quindi di essere donna (per non dire altro) ed entro ad attenderlo in studio. Intanto leggo: “Da ciò discende quale logica conseguenza, che non possa validamente attivarsi il meccanismo processuale previsto dall’Articolo 276 del Codice di Procedura Penale sulla scorta dell’asserita violazione di una prescrizione cautelare radicalmente nulla, motivo per cui si insiste affinché codesto Tribunale del Riesame voglia ripristinare la misura degli arresti domiciliari nei confronti dell’imputato”. Arriva: capelli scuri, magro, occhi grandi e intensi di chi ha un atteggiamento serio, umile ma anche sicuro di sé: “Le ho inviato il ricorso al Tribunale per Baby Gang - premette -, il mio assistito mi ha autorizzato a condividerlo con la stampa. Lo legga per avere una ricostruzione chiara dei motivi per cui Baby Gang è stato portato in carcere”. Lo rimprovero per avermi chiamata “signora” al telefono, minacciando di inviargli, se dovesse succedere ancora, la canzone Non sono una signora di Loredana Bertè. Coglie l’ironia e si scusa: “Mi perdoni” - aggiunge sorridente - mi sono reso conto immediatamente dopo di aver sbagliato”. E mi propone di darci del tu. Ora sono io a fare fatica a dargli del tu e blatero discorsi confusi tra il tu ed il lei rischiando come sempre di iniziare a parlare troppo di me quando qui si deve parlare di altri. Per fortuna ha le idee molto chiare e si impone iniziando ad aggiornarmi sulla situazione di Baby Gang.
L’ha visto stamattina in carcere e, ovviamente, mi racconta che “non sta bene ed è molto nervoso e umiliato per le drastiche decisioni prese improvvisamente dal giudice in seguito alla pubblicazione, neanche fatta da lui ma dal suo staff, di immagini dal suo ultimo videoclip”. Vecchioni ha la mia stessa idea del carcere e lo definisce “un luogo in cui l’essere umano sprofonda nel baratro, in una dimensione di sofferenza che atterrisce l’individuo e fa bruciare ferite”. E cita Leonardo Sciascia quando, nel commentare il caso di Enzo Tortora, invitò pubblicamente i magistrati a sperimentare il dolore della galera scrivendo che “ogni magistrato prima di prendere servizio dovrebbe trascorrere almeno tre giorni in carcere”. Guarda verso il basso avvilito e dice: “Eppure basterebbe poco per renderlo più umano”. Questa partecipazione emotiva agli eventi mi fa riflettere e mi viene in mente il cinema Western dove il bene trionfa sempre sul male. Io che sono cresciuta sui set dell’Almeria con un padre che la pistola ce l’aveva nei film come un fornaio ha sempre il pane caldo da portare a casa, trovo questi moralismi aggravanti (al di là della pena che va scontata e la colpa che va espiata) inutili e poco educativi ai fini di una riabilitazione già difficile, ma che così diventa impossibile. Leggo il documento: “Nello specifico, il Mouhib, è stato autorizzato a partecipare alle riunioni con le case discografiche, ad incidere canzoni presso gli studi di registrazione, ad esibirsi in concerti ed eventi musicali nonché a realizzare shooting fotografici e promuovere album e i vari dischi in uscita”. E ancora: “Dalle dichiarazioni del De Silva emerge che le fotografie caricate sul profilo Instagram Babygang_1 sono state scattate in occasione delle autorizzazioni concesse dall’autorità giudiziaria e sono state pubblicate sul social network dello stesso De Silva per promuovere l’imminente uscita del nuovo album musicale dell’artista L’angelo del male. È stato infatti ampiamente chiarito dal manager dell’imputato come il profilo Instagram Babygang_1 non sia amministrato direttamente dall’artista, bensì dallo stesso Marilson Paulo De Silva, il quale si occupa dell’aspetto comunicativo e della gestione dei canali social per conto del cantante”. Niccolò Vecchioni cresce, come molti dei rapper che difende, nella periferia di Milano. La sua famiglia però è colta e desidera per lui un’istruzione adeguata. Ha le idee chiarissime sin da piccolo sul fatto che vuole fare l’avvocato penalista e la sua ambizione è proporre una visione alternativa allo stato di polizia e affermare un’idea di giustizia nell’ambito della criminalità, un’etica che rispetti la legge anche laddove la legge non è stata rispettata. Quando si iscrive al liceo classico i genitori decidono che deve frequentare il classico Giuseppe Parini, una scuola pubblica piuttosto nota, che vanta la fama di insegnare come si dovrebbe, nonostante non sia né privata né a pagamento. Siamo in centro e non più in periferia, ci sono diversi figli della “Milano bene” pronti a cimentarsi nello studio del latino e del greco e a fare carriera. In questa nuova scuola, dove inizialmente si sente un pesce fuor d’acqua, cerca compagni più ribelli, “pecore nere” che possano in qualche modo parlare la sua lingua sovversiva, non comune, e trova il King dei rapper italiani Guè Pequeno, al quale resterà legato negli anni a seguire. La stessa scuola è frequentata in quegli anni anche da Dargen D’Amico. Molte delle sue frequentazioni del passato diventano suoi primi clienti. Nonostante Vecchioni difenda diversi rapper (quasi tutti quelli che si sono trovati nei guai) tra cui Baby Gang e Simba La Rue, ci tiene a precisare che questa categoria rappresenta solo una piccola percentuale della sua vasta clientela. Cerco di capire quale approccio ha in particolare con questi due clienti famosi, Simba La Rue e Baby Gang e mi risponde che li ha visti crescere e che riconosce a loro una lealtà e una solidarietà che definisce ammirevoli: “Li ho visti passare attraverso due anni di grande sofferenza e restare solidi e sempre pronti ad aiutarsi reciprocamente”. Dopodiché mi ripete, piuttosto provato, di essere stato la mattina in carcere a trovare Baby Gang, il quale si sente umiliato e deluso dal fatto che è stato rimesso in cella. Mentre lo dice si passa una mano sugli occhi.
Mi rivela preoccupato che il suo assistito non sta bene, è triste, nervoso, provato. Lo afferma con una partecipazione emotiva e un affetto che mi sorprendono. Non ho dubbi sul fatto che gli vuole bene che crede profondamente in questa difesa e in questo ragazzo dalle potenzialità artistiche sorprendenti che possiede di certo un’umanità ribelle, ma anche un animo profondo e sensibile. Mi sembra che, a differenza altri suoi colleghi che ho conosciuto personalmente, non pensi solo al lato economico, il suo impatto è da guerriero, da uomo di giustizia che crede nel fatto che siamo tutti figli della nostra storia e non è sempre una poesia che rasserena come le favole più belle o un film a lieto fine, semplicemente una storia da considerare con tutto il rispetto e le attenzioni del caso o non può esistere riabilitazione ma solo ipocrisia. Non vorrei mai trovarmi in guai seri, ma se dovesse succedere non esiterei un secondo a chiamarlo per difendermi. Mi colpisce l’amore e l’ironia bonaria con cui parla del suo assistito, come fosse un fratello minore a cui non viene permesso di uscire dai guai, che rappresenta per lui una vera e propria preoccupazione personale oltre che per un semplice assistito. La mente dell’uomo superiore ha familiarità con la giustizia, penso, mentre quella dell’uomo mediocre punta solo al guadagno. E lui non è un mediocre. Gli chiedo perché si accaniscono tutti contro i videoclip musicali dove appaiono le pistole (finte tra l’altro) e nessuno se la prende con la violenza e le armi che appaiono nei film di grandi registi come Quentin Tarantino, Francis Ford Coppola o Martin Scorsese (e la lista sarebbe infinita). Perché i videoclip dei trapper dovrebbero incitare alla violenza e i film no? In entrambi i casi, gli artisti recitano un ruolo, chi cantando e chi recitando. Che il ruolo sia vicino o meno a quello che hanno visto o vissuto dovrebbe restare relativo. Nel momento in cui si condanna una pura rappresentazione e non la realtà c’è già un problema. Dare poi ai rapper la responsabilità di incitare tutti i giovani che esistono su questa terra alla violenza, significa proprio non voler capire che dietro questo “film” si nasconde il nuovo modo di veicolare poesia diretto e immediato che racconta i nostri tempi. E a questo proposito Vecchioni scrive nell’appello: “Non pare allora ulteriormente rammentare che il genere musicale trap, di cui il Mouhib è un affermato esponente, mutua dal rap l’impiego di espressioni ed immagini cruente. La propensione al linguaggio violento , pertanto, costituisce un tratto tipico di questa sottocultura, uno stilema per non dire postura artistica, così come la tensione verso un modello ideale di (t)rapper-gangster. Parè quindi evidente che le fotografie di cui si tratta vanno lette alla luce del loro significato simbolico ed artistico e che le stesse hanno come unico scopo quello di enfatizzare il carisma del trapper Baby Gang in vista dell’imminente uscita del suo album musicale. Ciò consente di affermare senza tema di smentita che il Mouhib abbia agito in assoluta buonafede, facendo comprensibilmente affidamento sul fatto che tutte le autorizzazioni concesse gli consentissero di continuare a realizzare e promuovere, tramite i social network gestiti dal management, la sua musica”. Cosa non si perdona a Baby Gang, che più di punito si inizia a sospettare sia un po’ perseguitato?
Vecchioni si pone quindi la mia stessa domanda rispetto alla violenza nei videoclip e nel cinema e non trova la differenza. Per quanto riguarda Baby Gang e il perdono, ritiene quindi che si faccia un’enorme fatica ad accettare il successo che nasce dai bassifondi delle realtà più emarginate dove mancano le conoscenze, regna l’anonimato e l’immigrazione si rivela in grado di produrre arte. Io penso che, però, si accetta di far diventare famosi tronisti, influencer o soubrette di turno senza arte né parte, senza nessun talento, nonostante non siano certo modelli “virtuosi” per i giovani. Ma sembra che il problema di questi tempi siano Baby Gang e i trapper. Perché Baby Gang è il cattivo, il facile colpevole, la strega da mettere al rogo come nel Medioevo. C’è bisogno di puntare sempre il dito su qualcuno per mascherare i veri orrori di questa società e di questa politica che ruba innanzitutto alla povera gente e non prende certo come esempio Robin Hood che “rubava ai ricchi per dare ai poveri”, ma fa esattamente il contrario. L’avvocato Vecchioni sembra non volersi mai tirare indietro di fronte a un’analisi più approfondita dell’essere umano, del vissuto di ognuno che porta a scegliere una strada spesso inevitabile, piuttosto che un’altra. Ribadisce poi che la gente comune spesso fa fatica a riconoscere il valore artistico del rap, perché è una forma d’arte che nasce dal basso, dal degrado e dalla povertà. Si fatica anche a comprendere che il rap per questi giovani è stato “l’ascensore sociale” che manca in Italia. E così conclude chiedendomi: “Tu sei di Roma, no?”. Rispondo: “Sì, sono di Roma”. E lui: “Trilussa diceva: la serva è ladra e la padrona è cleptomane”. Mi sembra una frase molto efficace per descrivere il nostro sistema di giustizia penale, forte con i deboli e debole coi forti. Resterei ad ascoltarlo per ore, ma capisco che deve ancora lavorare, che la giornata per lui - nonostante siano le 18.30 - è ancora lunga. Me ne vado dal suo ufficio identificandomi nella serva ladra, ovviamente, perché non sarò mai la padrona cleptomane e penso che il capolavoro dell’ingiustizia è di sembrare giusta senza esserlo. Continuando a blaterare confusa tra il tu ed il lei gli chiedo una foto, come fossi una fan, per documentare il nostro incontro e lui chiama un suo collaboratore chiedendogli: “Puoi farmi una foto con questa giornalista?”. E aggiunge, con sincerità: “È stato un vero piacere passare del tempo con lei”. Non posso fare a meno di riconoscere che questo liceo classico Parini produce perle rare, come Gué Pequeno e Niccolò Vecchioni, che in comune hanno la determinazione, la preparazione culturale e la forza di non essersi mai arresi e di aver affermato un punto di vista che non si può fare a meno di ascoltare e condividere. Vorrei che anche mio figlio Maximus studiasse là. Mentre esco dal suo studio e mi dirigo fuori ad aspettare il taxi che gentilmente mi ha chiamato, penso a Baby Gang in cella e non posso fare a meno di invocare e credere in una giustizia più giusta che sia messa in atto da Dio e non dagli uomini. E mi viene in mente una frase di Platone che imparai a memoria già alle scuole medie. La giustizia è un bene assoluto per Socrate, suo maestro, che merita di essere preservato a costo della vita… e la frase di Platone, dopo questo incontro, continua a balenare prepotente nel mio cervello: “E questi se ne andranno a pagare il loro debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità”.