Roddy Doyle, su un ragionamento del genere, ci ha costruito su uno dei suoi successi più importanti, un romanzo che è diventato un film per la regia di Alan Parker, proiettandolo per un po’ nel gotha della letteratura europea. La sua tesi era che il blues fosse faccenda per neri, e che gli irlandesi fossero i più neri d’Europa, i dublinesi i più neri d’Irlanda, e i dublinesi del nord - il romanzo e il film si svolgono a Dublino nord - fossero i più neri di Dublino. Come dire, chiunque è più nero di qualcun altro. Tony Effe, che nonostante il nome da dj anni Novanta, è in realtà un trapper di un certo successo. Non credo abbia visto il film in questione - è nato esattamente nello stesso anno in cui è uscito il film, il 1991 - ma ha provato di fronte a un basito Gazzoli, lì a intervistarlo per il suo podcast BSMT, a dire che lui era il più nero di Roma. O una cosa del genere. In sostanza, dopo aver detto qualcosa che suonava come, “quando ho iniziato a fare musica mi sarei potuto permettere hotel a cinque stelle, invece dormivano in ostelli, coi piedi degli altri in faccia, cinquecento euro a serata da dividere in sette”, dando quindi a intendere di provenire da una famiglia benestante e di aver cominciato a fare musica mosso dalla passione. Ha virato improvvisamente a destra, andando a inanellare una cazzata dietro l’altra, ma roba da creparti il cervello se solo provi a stargli dietro.
Ha iniziato a dire che la sua era una famiglia normale, che viveva solo in novanta metri quadri al quartiere Monti, pieno centro di Roma. Novanta metri quadri in tre, va sottolineato, cosa che Gazzoli - non proprio il più sveglio in circolazione - ha provato a fargli notare. Ma lui niente, ha detto che c’era gente che aveva la piscina a Capalbio - per altro, luogo notoriamente di mare, ma va bene lo stesso - magari era una metafora venuta male. Ha quindi detto che a lui davano solo centocinquanta euro a settimana come paghetta, e qui Gazzoli proprio non ce l’ha fatta, ha detto chiaramente che centocinquanta euro non erano poi pochi. Ma lui, Tony Effe, il nero del rione Monti, ha detto che per lui erano niente, perché già fumava, aveva il motorino, se aveva la ragazzetta la doveva portare a cena. Affermazioni che fanno il doppio con quelle dette da Dikele, a Esse Magazine tempo fa, quando aveva dichiarato che la sua era una famiglia che se la passava malino, il padre orafo (tipico lavoro da emarginati sociali), che portava a casa al massimo cinquemila euro al mese, la madre cameriera in grandi alberghi, al massimo millecinquecento euro, toh, duemila, cosa che ha fatto letteralmente uscire gli occhi dalle orbite a Dikele, uno che ha legittimamente raccontato di quando era stato costretto, giovanissimo, a andare a lavorare per aiutare i genitori a mettere insieme il pranzo con la cena. Ma probabilmente lui, Dikele, non fumava e non aveva il ragazzino, e in quanto nero vero, e non presunto, non aveva ragazzette da portare a cena fuori. Il nero fa paura, è chiaro.
Lui, Tony Effe, ha anche detto che era un povero del centro, esattamente così, e ha anche detto che rione Monti, ai tempi (cioè l’atro ieri, stiamo parlando di uno che oggi ha trentatré anni, non settanta), era tutt’altra cosa, niente di lussuoso. C’erano le case popolari, dove ovviamente lui non viveva. Era una specie di San Basilio, il quartiere un filo più popolare di Roma da cui arrivano Ultimo e prima di lui Fabrizio Moro. Un povero del centro, appunto, che quindi, esattamente come Baby Gang o Simba La Rue, fa rap, trap o quel che è, per rivalsa sociale ed economica. Uno che voleva riscattare la adolescenza passata con soli centocinquanta euro in tasca, povero cucciolo, mentre tutto intorno a lui erano paghette da migliaia di euro. Uno che a un certo punto deve aver capito di avercela fatta, perché di colpo i soldi hanno ripreso ad avere il ruolo che in fondo dovrebbero sempre avere, quello di permetterti di fare e comprare cose, volendo anche case. Perché sì, lui, Tony Effe, ha una casa sua, presa perché, altro dramma esistenziale, dopo aver convissuto con una donna, poi con un’altra, poi con un’altra ancora - convivenze degne di diventare trama di un prossimo film di Paola Cortellesi - il povero rapper che è costretto a convivere controvoglia perché impossibilitato a emanciparsi, dove mai sarebbe potuto andare dopo un litigio non avendo una casa propria, ha deciso di diventare single, o quantomeno di avere un posto dove tornare al primo vaffanc*lo.
Ora, non sono un grande intenditore di droghe, né leggere né pesanti, ma se i ragionamenti che aver passato l’adolescenza a fumare ti porta a fare sono questi, che dire? Forse sarebbe il caso di fare proprie le istanze di Giovanardi e stigmatizzare anche le sigarette elettroniche, perché nulla di sensato proviene da quelle pratiche. Lo dice uno che, per la cronaca, ha passato le sue estati giovanili negli stessi luoghi e negli stessi laghi di Tony Effe. Convinto, io, di essere stato un privilegiato, salvo poi scoprire di aver scampato la frustrazione, credo per ingenuità. Questo, di aver passato le estati non alle Maldive - come se tutti i non poveri passassero le vacanze, tutte le vacanze, alle Maldive - ma in Ancona, che è appunto la mia città, l’ha detto a Dikele, lamentandosene, quasi frignando. A un Dikele assolutamente in imbarazzo, lui che di solito non le manda a dire quando ha di fronte qualcuno che non la pensi come lui (andatevi a recuperare l’intervista scontro con Fedez per credere), imbarazzato per cotanta idiozia esternata a beneficio di camera. Con centocinquanta euro, ai tempi, diciamo nei primi anni zero, quando Tony Effe era un ragazzino, ti ci potevi prendere centocinquanta ghiaccioli in un qualsiasi bar di un qualsiasi lido del Conero, posti da poveri del centro di Roma, rione Monti, la San Basilio che però ce l’ha fatta. Il rap, penso, è una faccenda da neri. L’Italia, con l’Irlanda, è il Paese più nero d’Europa. Monti il rione più nero di Roma. Casa di Tony Effe, novanta miseri metri quadri vista San Pietro, la casa più nera di tutte. Povera creatura, al mare sul Conero e con solo centocinquanta euro in tasca per ghiaccioli e canne. Che vita di inferno.