Ah, le belle intenzioni, laccate, utili a specchiarsi, al rito della propria beatificazione quotidiana... Qualche giorno fa concionavo davanti a un pubblico variopinto. Voglio la poesia sulle prime pagine dei giornali, nei tiggì, in prima serata!, sbraitavo. Il poeta è quello che ti fa vedere al di là, che ti conficca una finestra sul torso, che ti obbliga a torsioni verbali strabilianti; il poeta è un segno di contraddizione, la pietra d’angolo e quella dello scandalo, capace di scandire sguardi sgargianti, pieni di tigri, feroci e tenerissimi, lì a sfatare i falsi miti, la teogonia dei cardinali del progresso, la mestizia dei mestatori danarosi. La poesia in prima pagina, ve l’immaginate? Una specie di trabocchetto o di patibolo, un buco nero, il covo del cobra, una fiammata lirica al posto del solito editoriale incravattato, del solito approfondimento cattedratico, della consueta polemica telecomandata.
Il poeta nei talk show, ancora, buffone e burattinaio e inadatto, inadempiente a tutto, conciatore del nonsenso, sconcio, per fortuna incongruo, inutile a qualsiasi fine, ideologico, commerciale, televisivo... Che bellezza, il Nilo da un idrante, Rio delle Amazzoni dalla doccia, il poeta, giaguaro sulla spalla sinistra, Moby Dick sul divano: finalmente una parola diversa, dissonante, eloquente per difetto, eletta al niente, a mettere sotto scacco gli strateghi strapagati, gli inquilini accademici, i politici col tutù, le duchesse gne-gne, le facce facinorose degli intellettuali tellurici, per lo più imbarazzanti.
Per farmi grande, ho citato Hugo von Hofmannsthal: “Il poeta è là dove non sembra si trovi, e si trova sempre in un luogo diverso da quello in cui lo si pensa. Sicuramente egli abita nella casa del tempo, sotto la scala, là dove tutti gli debbono passare davanti, e nessuno lo nota... vivo, battuto dall’ultima delle sguattere, additato ai cani; senza ufficio, senza occupazione, senza diritti, senza obbligo se non di pesare tutto dentro di sé, sui piatti d’una bilancia invisibile, di pesare tutto questo continuamente, giorno e notte, e di provare pena infinita, godimento infinito”. Il poeta è luogo di equilibrio e di schianto, possiede il passepartout della Storia: soltanto a lui ne è noto il segreto, il cuore di vetro.
Ferruccio De Bortoli, al mio fianco, con una battuta da taekwondo ha messo fine ai tali castelli in cielo. “Sa, quando dirigevo il Corriere ho proposto di inserire una poesia ogni giorno... Un suo collega me ne ha inviate 365...”. Risate. Non credo di avere colleghi e non penso, impunemente, di darmi del poeta; il narcisismo del poeta, piuttosto, infantile e perciò incantato, non ha nulla del personalismo degli opinionisti con il phisique da ironia sagace, affettata, la protervia dell’istrione che esiste ‘per i lettori’, dunque prono, servo.
Il punto, piuttosto – direbbe von Hofmannsthal – sta nel rapporto del poeta con “il nostro tempo”. In Italia il poeta è inesistente, supplice, spesso portaborse: sogna un posto al sole, un posto sicuro, si apposta al cospetto del potente. Non ha più alcun ruolo, neanche quello del jolly, del fool, del cantastorie, del trovarobe. Nei mondi anglofoni, invece, il ruolo del poeta è sancito dall’alloro poetico, dal titolo di “Poet Laureate”. Non è incarico qualsiasi: il poeta ha il compito di forgiare l’immaginario, è erede di un’identità, esaurisce il proprio compito contestandolo. Dal poeta “laureato”, cioè, si esige la sovversione, lo sguardo capovolto, il salto di lato, la capriola. Il Regno Unito, per dire, è rappresentato da un grande poeta, Simon Armitage: nei decenni si sono alternati, tra gli altri, Ted Hughes, Cecil Day-Lewis – il papà dell’attore, Daniel –, Alfred Tennyson. Bizzarro: l’Italia vanta i primi poeti laureati d’Occidente – Alberto Mussato da Padova e Francesco Petrarca da Arezzo – e ora tratta i poeti genericamente da poveri sfigati. Eppure, perfino la Nuova Zelanda ha il suo poeta laureato – un tot di anni fa ho chiacchierato con il primo poeta laureato neozelandese, Bill Manhire, uomo infiammato da visioni antartiche. Negli Stati Uniti l’incarico di Poet Laureate dura un paio d’anni: lo hanno ricoperto poeti eccezionali come Elizabeth Bishop e Robert Penn Warren, Iosif Brodskij, Charles Wright e Charles Simic. Attualmente, il poeta laureato è Joy Harjo: donna, nativa, politicamente corretta, brava (in Italia la stampa Passigli).
Tra i poeti laureati d’America il più noto è stato Robert Frost: invitato all’insediamento di JFK, era il gennaio del 1961, recitò una poesia a memoria – a tutti era chiaro chi, tra tutti, deteneva il destino di quella terra, ne determinava il genio e forse, chissà, il futuro (in Italia lo leggete grazie ad Adelphi). Ma i tempi cambiano e come si sa l’attuale pres degli Stati Uniti, Uncle Joe, ha scelto di farsi scortare dalla rassicurante Amanda Gorman. Le sue poesie sono state subito pubblicate da Garzanti, e a tutti è parso che il poeta da punto di non ritorno si è smitizzato in punto d’incontro pubblico, da monito si è fatto sponsor, figura ben vestita, marginale, innocua, un grazioso diversivo.
La Gorman è tornata liricamente tra noi poco dopo la strage compiuta da Salvador Ramos alla scuola elementare di Uvalde, Texas. Ha impalcato una poesia via twitter, questa:
Scuole spaventate a morte
La verità è: istruzione sotto i banchi,
sotterrata dai proiettili;
e il crollo mentre ci domandiamo
dove vivranno
i nostri figli
& come
& se
Alla poesia hanno fatto seguito diversi cinguettii – esempio: “Ci vuole un mostro per uccidere dei bambini. Ma guardare mostri uccidere bambini ancora e ancora senza fare nulla è soltanto follia, è disumanità”; oppure: “La verità è che siamo una nazione sotto tiro” – diversamente apprezzati da svariate migliaia di cinguettanti. In uno dei suoi appelli lirici, la Gorman invita a dare soldi a “Everytown for Gun Safety”, organizzazione no profit fondata da Michael Bloomberg, già sindaco di New York e candidato nel 2020 per gareggiare alle presidenziali con casacca democratica.
Beh, la poesia della Gorman è fatalmente brutta. Quando il poeta slingua la cloaca della cronaca, tenta la morale senza incaricarsi della tragedia, è un politico come un altro. È un falso poeta. Al posto di farci vedere qualcos’altro – fosse una rosa in una tazza o il muso del mostro – fa leva sui bassi sentimenti, ci mostra ciò che vogliamo, ci dice ciò che già sappiamo. La sua poesia diventa tribunizia: accattivante, magari, per lo più da voltastomaco. Serva dei fatti, di un moralismo dai tratti elettorali, la poesia, allora, non è, si sfascia in pratica civica, in burocrazia etica, si slabbra nel suo opposto, la marchetta pubblicitaria. Meglio, molto meglio i nudi fatti, il reportage giornalistico, l’opinione. Così, il poeta – tale è Amanda Gorman per gli Usa – è un commentatore come un altro, con il prestigio di chi, senza alcun carisma, è soltanto ‘famoso’: la sua poesia, nei rotocalchi, è citata insieme al parere dell’ex presidente Barack Obama, un insulto.
Ma io continuo a mirare alla luna, a credere a Laputa più che nel Leviatano, a citare con incompetente solerzia von Hofmannsthal: “È in grazia della lingua che il poeta occultamente governa un mondo che i singoli membri possono rinnegare, di cui possono aver dimenticato l’esistenza”. Qualche giorno fa un uomo mi ha portato il suo manoscritto; poesie in dialetto romagnolo: Ad là de cunféin, così s’intitola la raccolta. Al di là del confine. L’uomo è magro, allampanato, di un pallore turgido, una faccia in estinzione. Sorride spesso. Lambisce i cancelli. In una poesia – cito nella traduzione italiana – parla di una “Povera fanciulla, sottile come una candela/ e dentro quel tormento/ una fiamma, che divora la cera”; in un’altra scrive dell’“acqua della vita”, con un compito, “che la sete sia con te”. Il poeta ha sete, nulla lo sazia, succhia la luce fino alla pietra viva, al crudo del mondo. Si chiama Enzo Travaglini, so che lavora in ospedale; non ha editore e non ne chiede. Tende a sparire. Un poeta, finalmente. Lo vedi dalle labbra. Pericolanti.