Ha la statura di un vincolo, l’implacabile dell’illecito: che del corpo di Pier Paolo Pasolini, dico, si faccia massacro, caustico banchetto, osceno mercimonio. Si sono inghiottiti gli occhi di PPP, la lingua forcuta, scartavetrato la mascella claustrale; funesto mercato si fa del suo cazzo, il cazzo pasoliniano, in irrimediabili copie, calchi di calchi, nudità svenduta a peso d’oro, che schifo. Tra i libri immondi che celebrano il secolo di Pasolini, nato a Bologna nel marzo del 1922, scopertosi poeta – e dunque, ovunque, scandalo – a Casarsa della Delizia, in Friuli, intellettuale a Roma, morto all’idroscalo di Ostia nel giorno dei morti del ’75, per lo più apolide, apocrifo al proprio tempo, uomo a parte, il più brutto, il più triste, il più insulso lo ha scritto Massimo Recalcati, s’intitola Pasolini. Il fantasma dell’origine (stampa Feltrinelli). Sessanta pagine in formato microscopico, da microonde editoriale, in cui lo psicoanalista telegenico “tra i più noti d’Italia” (così la bio) s’incarica, che infamia, di ‘normalizzare’ Pasolini, di fagocitare “le posizioni francamente reazionarie di Pasolini” in yogurt polemico e buonista – ma Pasolini era innocente, mica giusto; e l’innocenza è feroce, ferina, non risparmia nessuno –, d’altronde, “la sua non è una critica puritana al potere, ma la visione della necessità di un ricambio generazionale che impone si abbia il potere per modificare gli assetti del potere”. Insomma, il Pasolini di Recalcati non è la pietra d’angolo, il poeta lapidario, l’uomo che lapida il potere: è un pio riformatore che lavora per stimolare a “mettersi davvero in gioco per trasformare le istituzioni”. Petting partitico, patetico.
Perso in un fitto fottio di concetti marci, macilenti, anemici – del tipo: “Più in generale, Pasolini coglie con grande lucidità quel processo di dissoluzione della funzione simbolica del padre... che caratterizza il nichilismo della società dei consumi” –, di citazioni ritrite (dall’articolo “dedicato alla scomparsa delle lucciole” a quello Contro i capelli lunghi), Recalcati compila un bigino sfasato, da misero miniatore del proprio ego, sottolineando – che autoinzuccamento del cazzo – che a Pasolini “nel 1979 dedicai la mia tesi di maturità intitolata Popolo e religione nell’opera di Pasolini”. Eccolo, il fine psicoanalista, che infine piscia in bocca al cadavere di Pasolini sbraitando, con anale protervia, esisto anch’io nel centenario pasoliniano, mi unisco anch’io al fiero pasto dei cannibali, dei vili.
Piuttosto, i ricordi – retrivi, superficiali, vani – degli amici di PPP ci danno l’idea della sonora solitudine in cui viveva il poeta, schiacciante, agghiacciante, sfrenata – e verrebbe voglia, prima che ci prenda a morsi, di accarezzarlo, il cadavere di PPP, di baciarlo, di renderlo all’amore. Forse, ricorrendo all’elusione e al provocante, Pasolini mirava a essere frainteso. Di certo, non lo ha capito Dacia Maraini, che in Caro Pier Paolo (stampa Neri Pozza) vanta un’amicizia idilliaca con Pasolini, dando di lui l’idea di un mero pupazzo, un miserabile fantoccio, dominato dal destino del desiderio, prono a tutte le interpretazioni, a novanta, adatto al comodino, comodo, accomodante, un Pasolini aggiogato al guinzaglio, addestrato, che dice ciò che vuoi sentirti dire, inutile spettro, inerme, inerte.
Gente altolocata, passanti chiarificati dalla prestanza di Pasolini, che ora, con esasperata vendetta – inconsapevole? – lo sputtanano. In particolare, il testo della Maraini dimostra chiari segni di demenza stilistica, è scritto male (“Vorrei acchiapparti per un braccio, Pier Paolo, e chiederti: ma tu che corri sempre, dove vai?”), declassato in una nostalgia senza lignaggio, serva. Non è neppure sacrilego (magari lo fosse, ne godremmo per alterigia del grottesco, protervia in bestemmie): è biecamente inerte, beato nella propria fiera inutilità.
Di fatto, la Maraini tritura il cadavere di Pasolini in pappa di caviale, usa il morto per i propri fini, promozionali: l’autrice, figlia di cotanto Fosco, ci rammenta che con Piera degli Esposti ha scritto Storia di Piera (p.22), che a Pasolini piaceva il suo Memorie di una ladra (“L’hai giudicato un ‘romanzo picaresco’”, p. 67), che ha “fatto ricerche su Chiara di Assisi” (da cui, va da sé, è scaturito un libro; p.101), che ha scritto “un testo teatrale su suor Juana Inés de la Cruz (p.197). Ci avvisa, la scaltra Dacia, che “amo molto le case museo. Ricordo la casa di Tolstoj che ho visitato a Mosca...” (p.117), e chissenefrega; rivanga l’era femminista fatta di “albergucci economici”, “panino col formaggio” e ribellismo al dettaglio (“Il personale è politico, era la nostra ricetta prediletta”). In effetti, nell’anno in cui muore Pasolini la Maraini licenzia un dramma ad alta densità ideologica, Reparto speciale antiterrorismo, reperto di un’era fa, fasullo, da idolatria sessantottina, dove le forze dell’ordine calzano nomi parlanti (Cane, Muscolo, Furbo, Italo) e latrano frasi di militare idiozia: “Fare domande non è segno di intelligenza... Devi ubbidire e basta... Al lavoro in silenzio, senza fiatare”. Più che un segno di contraddizione, i testi della Maraini rispondono ai comandi dell’egemonia dominante, da lotta di classe in salotto, contenta lei.
Di Caro Pier Paolo, più che altro, va elogiata la copertina: Pasolini e la giovane Dacia, di apollinea bellezza, assediati dal cielo abbacinante d’Africa. Il breve ricordo di Ezra Pound, “un grande poeta compromesso col nazismo”, capace di poesie “che, a parte quelle deliranti legate al periodo nazista, sono bellissime” (quale sarebbe il “periodo nazista” di Ez?), è acido, stupido, imbarazzante.
Probabilmente, ex amici, compagni di via, smaliziati esegeti tentano di fare di Pasolini un’icona da talk, una specie di lassativo culturale, appianando aporie, apostasie, eversioni. Sono loro, costoro, incatenati allo show editoriale, che con sarcastica gioia ammazzano Pasolini nella sacrestia delle buone intenzioni, ne fanno pasto, lo sbudellano, lo evirano, felici di sventolarne lo scalpo, bravi, l’avete svaginato. Ancora e ancora e ancora.