Ogni tanto mi chiedo cosa verrebbe fuori nel girare “Comizi d’amore” oggi, nel 2022. Nell’Italia della cultura prêt-à-porter, nell’Italia dove l’omofobia non è ancora reato, dove persone come Tiziana Cantone si suicidano perché messe alla gogna per video intimi messi in rete senza il suo consenso, dove alle soglie di una guerra che potrebbe diventare più grande di noi (già lo è) le persone dubitano della veridicità delle immagini che guardano, dei carro armati, dei morti, dei feriti e degli sfollati. Pier Paolo Pasolini manca, nel bene o nel male, nelle intuizioni percepite come profezie compiute, nella flemma nell’illustrare a un popolo coi paraocchi la sua stessa natura, nella lotta - a volte distorta - nei confronti della società dei consumi come quando si oppose all’aborto, per lui estremizzazione perversa di un bisogno capitalistico della massa.
“Abbiamo perso prima di tutto un poeta” dichiarava Alberto Moravia poco dopo l’omicidio del suo amico e collega. Un poeta della parola come insegnano i suoi scritti o la sua “Rabbia”, ma anche dell’immagine (in modo dissimile a Andrej Tarkovskij) in un cinema che esulava dal mezzo, dal linguaggio cinematografico, e rimaneva sottopelle come un ricordo che non si riesce a cancellare. Un film come “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, nel presente, è impensabile, improponibile a qualsiasi produttore, non vendibile alla maggior parte del pubblico che si scandalizza per film come “Mother!” (ma che davero?). Pier Paolo Pasolini era ingestibile all’epoca soprattutto da parte della Chiesa, della destra, o della élite progressista, o pseudo tale, che alle spalle lo derideva ed etichettava come “invertito”. Oggi un Pasolini, che è sempre stata una creatura al di fuori del tempo, verrebbe percepito ancora di più in modo dissonante; sarebbe un giornalista freelance, un precario della banda larga, un disertore dell’economia nazionale, uno che si autopubblica testi e poesie - magari su Amazon -, una pagina su Facebook di riferimento per i complottisti della vita. Per certi versi è un bene che sia morto da decenni e che sia nato il 5 marzo di cento anni fa; ha vissuto un’altra epoca del mondo forse più feroce ma meno stupida.
Nel libro “Pier Paolo Pasolini. Fotografie di Dino Pedriali” (uscito nel 2011) il fotografo lo coglie nudo nella quotidianità, poco prima della sua morte (era un servizio fotografico pensato per accompagnare il libro Petrolio), e sfogliare quelle foto col senno di poi ha il sapore commovente di uno spiraglio su una umanità perduta. Indagine su un corpo martoriato dall’incomprensione della società, dalle denunce, dalla persecuzione, dall’accanimento e dalla costante ricerca, da parte di Pasolini, di diventare un rabdomante dell’orrore di ciò che era sbagliato intorno a noi. Mettendosi letteralmente a nudo Pasolini gioca di sottrazione, si scarnifica per arrivare alla verità: che non c’era mai stato niente di osceno nel suo lavoro, che spogliare la borghesia dalla sua sicurezza come in “Teorema” era necessario; che mostrare l’unicità della vita nel suo nonsense nell’episodio “Cosa sono le nuvole?” era una dolce consolazione che regalava al pubblico; che “Salò” era la dimostrazione che il male viene compiuto dai criminali e non c’è nulla di difficile o innaturale in questo.
Parafrasando Jacques Lacan, Pasolini era uno strano rivoluzionario, uno che non aveva e non voleva padroni. Chi oggi riuscirebbe a posare così, dove ogni foto sembra una resa incondizionata nei confronti di una umanità sorda e cieca? Negli scatti di Dino Pedriali l’osceno è la totale assenza di difese, la verità di un corpo che sarebbe stato devastato il 2 novembre del 1975 all’Idroscalo di Ostia, e di cui conserviamo le disturbanti immagini in bianco e nero. Non so se siete mai stati dal Monumento dedicato a lui, lungo via dell’Idroscalo (opera di Mario Rosati), ma pare un incubo in cui si è grati di essersi svegliati una volta che ci si allontana da lì; è come se il malessere di un’intera epoca fosse concentrato in un luogo, in cui neanche nelle giornate di sole penetra la luce, di una Storia che è stata messa a tacere per sempre e quei nomi, i nomi che Pasolini, sul Corriere della Sera, conosceva e ricollegava a fatti violenti della storia italiana, sono persi per sempre. Ucciso come un cane!, in una scena che non è quella di un film e la vergogna non appartiene a un uomo che viene ammazzato, ma è di una intera società che l’ha lasciato solo.
Come può un uomo essere colpevole? scriveva Kafka, Pasolini è stato giudicato da un tribunale di fantasmi e senza possibilità di appello, se aveva una colpa era il non avere vissuto dissociato da se stesso come richiedeva quella bulimia capitalistica contro cui si scagliava.
Le nuove generazioni di Pasolini ne hanno una testimonianza mediata attraverso i video su Youtube in pillole di testimonianze, di interviste centellinate quasi fossero, appunto profezie da distorcere a nostro piacimento, in base a ciò che vogliamo cogliere della realtà contemporanea. Tre mostre a Roma, una al Palazzo Ducale di Genova, la Cineteca di Bologna con Pasolini 100, il cinema Sacher di Nanni Moretti 12 film per ricordare il suo lavoro da regista e molto altro ancora, così l’Italia intera, troppo tardi, omaggia Pier Paolo o per dirla con le sue parole: ora i fratelli maggiori finalmente si voltano, smettono per un momento i loro maledetti giochi, escono dalla loro inesorabile distrazione e si chiedono: è possibile che lui ci abbia indicato la strada?
“Abbiamo perso un poeta” tuonava Moravia nell’elogio funebre “e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro”. Cento anni dalla sua nascita Pasolini stesso si stupirebbe nell’apprendere, con una lucidità che abbiamo perduto, che oggi i poeti, se ce ne sono, non si massacrano più, si lasciano morire di fame.