Dialogare con Vittorio Feltri ha uno strano effetto liberatorio, soprattutto in un periodo come quello attuale in cui le parole devono essere utilizzate con particolare cautela. Pena: la riprovazione, se non addirittura la cancellazione sociale (la famosa cancel culture). Il direttore editoriale di Libero, invece, le usa tutte – anche le apparentemente più scorrette – con una innata disinvoltura. D’altronde, spiega, “non si può fare la guerra al dizionario”. E lo dice riferendosi all’Ordine dei giornalisti che considera “più che un ente inutile un ente dannoso”.
Come quando commenta la sentenza di assoluzione per il giornalista Massimo Fini, che definì Berlusconi in vari articoli “delinquente, terrorista, pregiudicato, malavitoso”, non si capacita del perché verso l’ex Cavaliere sia consentito utilizzare certi termini “e io non posso dire liberamente la parola frocio”.
Sembra quasi che in questa battaglia di liberazione delle parole si ispiri allo stand-up comedian Lenny Bruce, che un giorno salì sul palco esordendo in questo modo: “C’è qualche negraccio qui stasera?”, per poi arrivare a spiegare che “è la repressione di una parola quello che le dà violenza, forza, malvagità. Se il presidente Kennedy (erano gli anni 60) apparisse in televisione e dicesse: Vorrei farvi conoscere tutti i negri del mio gabinetto, e se continuasse a dire negro, negro, negro a tutti i neri che vede, finché negro non significherà niente, mai più; allora non vedreste piangere un bambino di sei anni perché l’hanno chiamato negro”.
Quell’utopia è rimasta tale, anzi, non è mai apparsa così lontana. Eppure, Feltri sembra fregarsene continuando a dire quello che pensa con le parole che trova stampate sul dizionario. E così, anche l’epiteto “terrone” precisa di non averlo utilizzato in modo discriminatorio, “al massimo un po’ scherzoso”, quando sosteneva di non credere al complesso di inferiorità del Sud perché effettivamente “in molti casi è inferiore” ribadendo che intendeva sottolineare “il tessuto economico molto debole a causa della criminalità”.
Nell’intervista che ci ha concesso non ha poi mancato di esprimere perplessità sulla proposta della scrittrice Dacia Maraini di riaprire il caso Pasolini (ieri su La Stampa) perché “non mi sembra ci siano tante cose da aggiungere” e nello stesso modo si è detto contrario al disegno di legge Zan per inasprire le pene verso l’omofobia: “Una aggressione a un omosessuale è più grave di quella a un chierichetto?”. E infine, parlando di giornalismo – dopo aver tuonato contro l’Ordine “che invece di proteggere i giornalisti li punisce” e aver bacchettato i giovani colleghi “che non seguono più la cronaca sul campo” – ci ha confessato che “mi piacerebbe aprire un mio sito, ma purtroppo sono “tecnologicamente un analfabeta”.
Direttore, Dacia Maraini ha chiesto di riaprire il caso sulla morte di Pier Paolo Pasolini, utilizzando le nuove tecniche a disposizione oggi degli investigatori. Cosa ne pensa?
Che sia veramente fuori luogo riprendere dei fatti che risalgono a moltissimi anni fa. Sul caso Pasolini non mi sembra che ci siano tante cose da aggiungere. Sappiamo che era andato in quel luogo per fare quel che gli piaceva fare… sono affari suoi, non c’è niente di moralistico in quello che dico. Poi c’è stato quel famoso contrasto con il ragazzo e sappiamo come è andata a finire. Non capisco cosa si potrebbe trovare di nuovo in una vicenda del genere che non ha altra spiegazione se non quella che è già stata data.
Nel 2015 lei non fu tenero in un suo articolo su Il Giornale verso la figura del poeta: “Pasolini un simbolo che scrisse banalità”. Ne è ancora convinto?
Mi riferivo all’articolo sui poliziotti che scrisse sul Corriere della Sera, dicendo che sono figli del popolo. La scoperta dell’acqua calda! L’abbiamo sempre saputo tutti che uno non va a fare il poliziotto se ha una famiglia in grado di assicurargli un avvenire migliore. Fare l’ufficiale è un’altra storia, ma a lavorare nell’ordine pubblico sono quasi tutti figli del popolo. Cioè di gente modesta, non c’è niente di male. Per cui, in affetti quell’articolo fece scalpore a sinistra e non solo, ma dov’era la novità? Si sapeva da sempre che nelle forze dell’ordine vanno i poveracci. Non era una critica a lui come poeta, scrittore e regista perché su quello non si può denigrare visto che ha avuto la sua grandezza, non c’è dubbio. Ma quando scopre l’acqua calda, bisogna dirlo…
Sul quotidiano La Verità, lo scrittore Walter Siti ha invece rilasciato una lunga intervista, dove ha criticato gli scrittori mainstream Saviano, Murgia e Carofiglio. Li ha accusati di utilizzare la letteratura per dare valore alle loro convinzioni sociali e politiche. È d’accordo con Siti?
Credo che le cose siano sempre andate quasi sempre così. Anche in passato gli scrittori cercavano di seguire l’onda della moda per avere il riscontro delle vendite dei loro prodotti. Non mi sembra stupefacente. Possiamo criticare le forme eccessive al conformismo corrente, ma non è un fenomeno di oggi. È sempre stato così e penso che sempre sarà così. Gli scrittori vivono del loro lavoro e se questo non cavalca l’onda corrente non produce quel reddito che si aspettano. Si adeguano all’andazzo ed è qualcosa di consolidato. Mi fa sorridere, ma è così.
Per caso ha letto sul Fatto l’articolo di Massimo Fini, che lei conosce bene, il quale ha risposto a Il Giornale e Libero che lo hanno attaccato nonostante la sentenza di assoluzione per aver scritto di Berlusconi in vari articoli “delinquente, terrorista, pregiudicato, malavitoso”. Ha detto che “per me vale una presunzione di colpevolezza anche se un tribunale mi ha dichiarato innocente”.
Quello che decide la magistratura, piaccia o non piaccia, va accettato. Per cui, di Berlusconi si può dire di tutto: che è un delinquente e un mascalzone. E il fatto che Fini sia stato assolto non mi dispiace, perché sono contro questo querelume, cioè la mania di querelare chiunque dica un concetto che non viene accettato da tutti. Fini lo conosco da anni, è uno bravo, con delle uscite un po’ stravaganti e a volte offensive, ma non importa. Però mi chiedo: come mai si assolve Fini per certi termini, mentre a me hanno rotto tantissimo le palle perché ho scritto che nel governo Conte prevalevano i terroni?
Non era offensivo?
Ma no, al massimo un po’ scherzoso… Non c’era niente di crudele. E invece mi hanno distrutto. Poi perché ho detto in Tv che non credo ai complessi di inferiorità del Sud, perché in molti casi è inferiore. Ma è evidente che il tessuto economico è molto debole anche a causa della criminalità. È ovvio che ci sia criminalità anche a Milano, ma non c’è un allevamento qui, ci arrivano da fuori. Oppure se un omosessuale lo chiamo “frocio” mi processano. Allora bisogna usare lo stesso metro di misura per tutto. Infatti, non capisco perché Berlusconi possa essere definito delinquente e io non possa dire “frocio”. Che senso ha?
Nel giugno 2014 lei prese la tessera di Arcigay, affermando dalle pagine de Il Giornale: "Noi siamo per la libertà, senza discriminazioni, convinti che sia necessario superare i pregiudizi che generano equivoci, banalità, insulti noiosi e stupidi". Oggi però non si è dichiarato a favore della legge Zan, come mai?
Mi sembra inutile, perché le aggressioni sono già punite dalla legge italiana, senza distinguere se l’aggressione viene fatta a me, a mio cugino o a un omosessuale. Le aggressioni sono aggressioni e vanno punite, punto a basta. Perché dobbiamo fare leggi speciali? L’aggressione all’omosessuale è più grave di quella a un chierichetto? È un discorso giuridico più che ideologico. Del resto, non me ne frega niente. Io sono contrario che si facciano aggressioni a chiunque, non solo agli omosessuali. E non mi pare che la categoria sia oggetto di chissà quali assalti.
Alcuni episodi si sono registrati e le associazioni Lgbt dicono che sono in aumento.
La gente viene aggredita per strada tutti i giorni e nessuno dice niente. Che differenza c’è tra l’assalto a un pensionato che esce dalla posta o a un omosessuale che passa per strada?
Ieri nel suo editoriale su Libero ha bacchettato i giornalisti, perché “non si occupano più della cronaca nera, se ne stanno davanti il computer a rimbambirsi”.
Purtroppo è così… non si va più sul posto. Non si indaga. Non ci si incuriosisce. Si riportano i fatti con un linguaggio burocratico, punto e basta. Cosicché il racconto di quello che avviene nella società lo perdiamo. Lo trovo sbagliato. Ho portato l’esempio di Dino Buzzati, ma ce n’erano tantissimi di giornalisti bravi che raccontavano cercando di approfondire. Invece oggi stanno davanti al computer e se una cosa non è su internet non è successa. Poi si copiano a vicenda e ci si lamenta perché la gente non compra il giornale. Certo, è già su internet…
Ha addirittura confessato: “Mi viene voglia di cedere alle lusinghe del riposo…”.
Si, perché c’è un costante peggioramento. Non voglio colpevolizzare le nuove leve del giornalismo, perché sono vittime di una società che sta andando verso l’indifferenza dei fatti della vita, mentre continuano a romperci i coglioni con il Covid. È un problema, non dico che non lo sia, così come la politichetta con le solite cose abbastanza interessanti, ma non si raccontano i fatti della vita. Il giornale in pratica non spiega più il mondo in cui viene pubblicato.
D’altronde, anche Vittorio Feltri non è più nell’Ordine dei giornalisti. Si è mai pentito di esserne uscito?
Ma figurati a me che me frega dell’Ordine! Non è un ente inutile, ma un ente dannoso…
Addirittura pensa sia dannoso?
Sì, perché invece di proteggere e guidare i giornalisti, l’Ordine li maltratta e li punisce. Ormai si è piegato politicamente al conformismo dilagante. Fa persino la lotta al dizionario, se usi determinati termini ti persegue perché quella parola non puoi usarla. Ma se c’è sul vocabolario perché non posso usarla?
Indro Montanelli a più di 80 anni si lanciò nella fondazione de La Voce, anche se poi durò poco. Dopo tanti anni nella carta stampata, a lei non piacerebbe cambiare e realizzare un nuovo progetto, magari addirittura solo digitale?
Io purtroppo sono tecnologicamente analfabeta. Faccio fatica a usare anche il telefonino. Mi piacerebbe fare un sito tutto mio, ma non sono in grado di metterlo in piedi per incapacità. E quindi sono costretto a continuare nella carta stampata, non facendo neanche più il direttore responsabile ma editoriale, perché non voglio svolgere il lavoro tipico del giornalista. Posso dare gli input, ma non mi metto più a fare i titoli. Scrivere però è un diritto di ogni cittadino italiano. Quindi anche il mio, presumo.
Quest’anno almeno sul versante calcistico sarà soddisfatto per la sua Atalanta. Anzi, forse meriterebbe di più la Dea di far parte della fantomatica Superlega rispetto alla Juventus…
Io sono contrario alla Superlega, perché il calcio non è un fenomeno elitario, ma popolare. Se fai una lega con dentro Juve, Inter e Milan e lasci fuori Roma e Napoli, così come Sampdoria o Fiorentina, vuol dire che non hai capito niente. Cioè, davvero non sai cosa sia il calcio. È stato un errore tragico. Ci sono già le coppe europee, così come altre manifestazioni internazionali, perché creare un club ristretto solo per avere più diritti Tv rispetto a chi fa dei risultati? L’Atalanta sta avendo dei risultati migliori della Juve, quindi perché i bianconeri sì e l’Atalanta no? Ha avuto solo l’effetto di mortificare il popolo che segue le sue squadre. A Verona seguono il Verona, non gliene frega un cazzo della Juve!