Questo, più che altro, è un sabba, un rito di riparazione, altro che stroncatura, convegno di Baccanti imbacuccate da iene, piuttosto, falò di rosari roteanti. Ogni gesto critico intorno alle poesie di Franco Arminio significherebbe assegnare ad esse dignità poetica: ma le poesie di Franco Arminio, inique perfino per i Baci Perugina, fuochi fatui nella cioccolateria della lirica recente, spesso indecente, vanno semplicemente liquidate, censite come un abominio da cui difendersi, gioco di specchi, speculare al niente, paraculo, semmai. Indifendibili, piuttosto, i lacchè – paraculi pure loro – che si prestano a omaggiare l’insulsaggine poetica di Arminio, qui citati a misura di pernacchia: Roberto Saviano, che lo dice “Uno dei poeti più importanti di questo Paese” (da quale gonorrea arriva la predica?); Emanuele Trevi (autore Einaudi) che paragona le caccole liriche di Arminio a “certi indimenticabili epigrammi composti in vecchiaia da Giorgio Caproni” (!); Valerio Magrelli (autore Einaudi) che va in estro per tale “poesia delicata, volatile, breve, ma esatta”; Marco Belpoliti (autore che pubblica con Einaudi) che gorgheggia, “Leggere Arminio è un’esperienza indimenticabile”; Domenico Scarpa (che ha pubblicato pure lui con Einaudi: insomma, è una combine di struzzi, ci pigliano tutti per allocchi) a sintetizzare, “Arminio è uno scrittore raro”.
Il resto, in effetti, è il perfetto manuale della falsa poesia, l’estasi del “poeticume”, didattica lirica devota al regno dei consumi e dei denari, prona al mercato delle frasi fatte, al turbocapitalismo dei cliché. Franco Arminio dissangua la poesia, la mutila di ogni forza eversiva, di ogni ribellione linguistica, di ogni lingua, ne fa il peluche dei tempi moderni, coatta sottomissione al mondano, resa indegna al cocktail, al decoro innocuo, al refluo sentimentale, alla mignotteria da talk show, al verbo che consola, che culla, che collima con la presa per il culo, infine vacuo, perfino vile. Scrive di sesso, da assatanato, con la stessa protervia di quelli che non lo fanno più (“Una cosa è fare l’amore,/ più o meno in qualche modo lo fanno tutti,/ e un’altra è avere un senso acuto/ del corpo maschile o femminile”: qui, ad esempio, perché Arminio va a capo?, che senso ha suddividere in essudati versi una frase, tra l’altro, brutta perfino in prosa?); cita i giganti, sperando forse di schermare la propria impotenza, ma gli omaggi scemano in autentico oltraggio al genio: Franz Kafka è quello che “faceva ginnastica/ e andava a puttane” (!); il legame tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann si riduce a “Sei settimane di amore a Vienna/ e poi un lungo perdersi e ritrovarsi”; Il male oscuro di Giuseppe Berto, naturalmente, “non fu per nulla oscuro”; e Alda Merini “non era pazza, solo era convinta/ che la ragione è un luogo sbagliato”, che distico di miliare banalità (e poi, ancora, perché va a capo Arminio se scrive in prosa?). Taccio degli altri, sia onore ai sacri defunti; imperdonabile chi fa il tombarolo tra i versi altrui. Per capirci meglio. Questa è una non-poesia di Arminio:
L’amore per te mi ha raggiunto
ed ora è qui dentro di me,
come una larga via.
L’amore più che sentimento
è geografia.
Questa è una poesia di Scipione, pittore della Scuola Romana, poeta amato da Amelia Rosselli, edito da Einaudi – quando era Einaudi – quarant’anni fa:
Mise le mani per terra ed era simile
ad una bestia.
La terra ha tutti i nascondigli,
gli scarabei ronzano nell’aria.
La testa alla radice dei capelli brucia,
le spalle si aprono, le viscere si commuovono.
Non ci sono voci:
la terra s’alza, il ventre suona vuoto,
i seni s’allungano, precipitano verso terra,
le dita ritorte dei piedi,
i ginocchi, le dita delle mani toccano la terra.
Il sole si è fermato
lungo le reni. Corre un vento pieno di polline.
Qui c’è qualcosa di immediato e di arcano, di assoluto e di inquieto, una nitidezza che fa sanguinare.
Questa è una non-poesia di Arminio:
Se non ti vuole
non insistere.
Ma se ti vuole
considera che una donna
in amore è sempre
assai ambiziosa:
non lascia niente per sé,
vuole trovare Dio
insieme a te.
Un aforisma da abbinare alla posta del cuore, per abbindolare gli inermi, un batuffolo di nulla. Queste, invece, sono due brevissime poesie di Dario Villa, poeta che piaceva a Giovanni Raboni, lo riteneva “costantemente, oserei dire insistentemente frequentato dalla grazia”:
– bestie stratificate urgono sotto,
divorate da inutili secondi,
braccate dalla coda, il muso muto
e chiuso, somigliante ad altro, all’ombra
di una parvenza, a un morso,
a un lupo, al vuoto:
il cuore occluso, roso da vertigini
che durano un minuto, come i secoli
i corpi a morsi si scardinano
gli occhi bruciano al buio
i sogni penetrano nella carne
i corpi rotolano come troni rovesciati
Qui il gioco di parole non è arabesco, ma necessario; pervertire la lingua è il gesto primo del poeta, che agisce da corsaro, autentico Dioniso che passeggia sul corpo di un giaguaro, che decapita il proprio tempo, sguaina risa, sguaiato.
Questa è una non-poesia di Arminio:
Prima di baciarla guarda il cielo.
Tieni le dita sul pube
senza provare ad aprirlo,
aspetta che la pioggia
la spinga più in basso.
Riprendi a baciarla
se te lo chiede la luna.
Questa, invece, è una poesia di Fernanda Romagnoli, poetessa autarchica, estrema, remota, pubblicata, anni fa, da Guanda, Garzanti e Scheiwiller, amata, tra gli altri, da Attilio Bertolucci:
Uggiola alla fessura, cagna-luce.
Qualcuno il mio sonno ha legato
quattro zampe in un mazzo. All’aurora
chi aprirà? Voglio alzarmi. Ho paura.
Nel pozzo del cranio
– senza uscita –. Nel buio sacrario
sconsacrato. (La luce come un’unghia
sotto le porte).
A differenza di Franco Arminio – che ha confuso l’arte di amare con le istruzioni per far funzionare la lavatrice – la Romagnoli ha scatti verbali ferini, sempre felici; le immagini azzannano, la tensione è ovunque: tutto ha l’urgenza della profezia, dell’incubo blu.
Fine dell’abbecedario. Morale: Scipione, Dario Villa e Fernanda Romagnoli sono scomparsi dal panorama editoriale odierno, diversamente dimenticati nel paese indegno, delle nefandezze; così dobbiamo sorbirci Franco Arminio, biberon indigesto, lassativo lirico, pubblicitario di se medesimo. Per valicare Arminio – gesto riparatorio, mica assolutorio, assoluto, semmai – leggiamo Scipione, Dario Villa, Fernanda Romagnoli.
Così parla il lebbroso della letteratura, il traditore, quello che scava nel corpo putrefatto, luminescente del verbo, e ruota la fionda per accecare, per lo più, se stesso.