Un po’ per caso, giorni fa, piombo in una riunione di esperti in ‘bandi europei’. Gente di mondo, che sa come funzionano le cose, spesso con villa in campagna. Che cazzo ci faccio lì? Mistero. Diciamo che sono agitato da una crudele curiosità. Ad ogni modo. Uno dei bandi europei sbandierati dagli esperti riguarda un progetto culturale, diffuso su più paesi, ciascuno rappresentato da una personalità. Nel discorso, ho accennato ad Anna Achmatova: nata nei dintorni di Odessa, è tra i grandi poeti russi di ogni tempo. Gli esperti mi hanno fissato con severità, occhi traboccanti di coltelli. Un russo? Sei scemo? Un russo non va bene... Provo a perfezionare il ragionamento: la Achmatova ha studiato a Kiev, è stata ritratta da Modigliani a Parigi; aliena alla politica, è stata censurata, stigmatizzata, messa al bando dal regime stalinista, trattata come un paria; l’ex marito, il poeta e avventuriero Nikolaj Gumilëv, è stato assassinato dai bolscevichi nel 1921, il figlio Lev arrestato con l’accusa di essere un sovversivo (ma era, semplicemente, il figlio di suo padre). Ha scritto poesie d’amore, meravigliose. Mi zittiscono. Qualcuno cava il nome di un poeta ucraino, glielo ha suggerito una tizia a cui lo ha suggerito un tizio. Nessuno lo ha mai letto, va da sé – in quel consesso, nessuno ha mai letto neanche l’Achmatova –, eppure, dicono, la presenza di un autore ucraino è strategica per concupire i grigi funzionari che gestiscono i bandi europei. Non fatico a capirlo, ma non mi rassegno. Aiutare il popolo ucraino è un atto di misericordia doveroso che nulla ha a che vedere con la statura poetica di un autore: la Achmatova è infinitamente superiore al poeta ucraino – che nessuno conosce, tranne me: nel frattempo, per cruda fame, mi informo – che vogliono fagocitare in un progetto insensato. Abbandono la truppa, sorridente, come sempre.
Povero idiota. Stefan Zweig ne Il mondo di ieri – evocato in un lucido articolo di Giuseppe Reguzzoni pubblicato su “Il Sussidiario” – ha descritto la meccanica culturale dell’odio, la macchina della rabbia, l’ansia di morte, l’inconsapevole desiderio di massacro che galvanizza tutti i periodi bellici. “A tale compito si dedicarono all’epoca – con buona o cattiva coscienza – gli intellettuali, i poeti, gli scrittori, i giornalisti. A loro toccava di battere sul tamburo dell’odio e lo fecero con la massima energia, finché ogni persona, anche la più ragionevole, ne ebbe pieni le orecchie e il cuore. Quasi tutti in Germania, in Francia, in Italia, in Belgio e in Russia si misero al servizio della ‘propaganda di guerra’, sostenendo così la follia e l’odio collettivo, invece di contrastarli. Le conseguenze furono catastrofiche (…). Shakespeare venne bandito dai teatri tedeschi. Mozart e Wagner da quelli francesi e inglesi. (…). Non bastava che quotidianamente migliaia di cittadini di questi paesi si ammazzassero al fronte; anche dal fronte interno bisognava infangare e offendere la memoria dei grandi uomini del nemico, che già da secoli riposavano nelle loro tombe (…). Nessuna città, nessun individuo riuscì a sottrarsi a quel terribile isterismo, alimentato dall’odio”.
Se c’è una cosa insopportabile, in tempo di guerra, in effetti, è la speculazione ‘culturale’ sulla tragedia. Se gli ‘esperti’ che blaterano di battaglie in tivù mentre altri le fanno al fronte rasentano il grottesco, l’editore che fa ricavi sulla pelle delle nazioni oppresse pare un avvoltoio. I libri sull’Ucraina sono diventati un piccolo fenomeno editoriale: la morte attira lettori mediamente analfabeti. Con il titolo Ucraina, ad esempio, anche Mondadori non rinuncia al festino, al mattatoio della ragione etica e della ragionevolezza estetica. Il libro è un abbecedario giustificato dall’ovvietà e dalla necessità da parte dell’editore, probabilmente, di schierarsi. Nella “Prima parte” sono raccolte alcune fiabe ucraine, un’antologia di testi di Taras Ševčenko e di Ivan Franko, padri della letteratura ucraina moderna; nella “Seconda parte”, per lo più inutile, sono schedati alcuni testi di Nikolaj Gogol’ e di Isaak Babel’, due giganti della letteratura russa, nati in Ucraina, di cui occorre leggere l’opera integrale, pubblicata come si deve. Non sorprende che Mondadori abbia dovuto razziare i brani degli autori ucraini da altri editori (l’Editrice La Scuola, Le Monnier Università, Nardò); per dirla con furor di cinismo: prima che l’Ucraina fosse invasa dalla Russia, a chi fregava della letteratura ucraina? Appunto.
Se fossi un editore autentico – e non uno che specula sui dolori altrui spulciando testi pubblicati da terzi – costruirei una vasta antologia della poesia ucraina, varerei una collana di narratori ucraini, pubblicherei come si deve almeno Lina Kostenko, autentica eroina della lirica contemporanea di laggiù. Non farei della letteratura ucraina un ghetto, un pretesto, ecco. Certo, fa più effetto un libro sontuosamente vago, da arredamento, titolato Ucraina, fasciato con i colori della bandiera ucraina, con l’editore che, senza pudore, ostenta le proprie virtù (“Gli Oscar Mondadori a supporto della campagna UNHCR in aiuto della popolazione ucraina”) e l’articolo primo della Costituzione stampato in evidenza, “L’Ucraina è uno Stato sovrano e indipendente, democratico, sociale, basato sul diritto”. Frase alata, aulica, contestata dal Democracy Index 2021 stilato da The Economist: secondo questa classifica – in rete trovate tabelle e metodi di indicizzazione – l’Ucraina è definita “regime ibrido”, occupa, per difetto democratico, la posizione numero 87 della griglia planetaria (l’Italia è alla 31), sotto il Messico, appena prima del Senegal (per precisare, la Russia è definita “Regime autoritario” e occupa la posizione numero 124, la Cina il 148).
Detto questo, in un regno di bruti noi stiamo, sempre, coi brutalizzati, con gli inermi su cui insistono i forti, in un delirare infinito, vile; stiamo con le vittime, di cui tutti – assalitori e assaliti – hanno bisogno per sfamare la veglia della vendetta, le voglie dei signori della guerra. Stiamo con quelli ammazzati, fatti a pezzi, massacrati e gettati tra le fauci delle fosse, più degni e valorosi di quei vampiri in uniforme che non sanno quello che fanno. Stiamo con gli aggrediti, sempre, non con gli aggressori. Non è tempo, questo, della speculazione editoriale, delle evanescenze letterarie piegate per fini di immagine, di cattivo gusto, a levigare la propria cattiva coscienza fino al cristallo dell’ipocrisia. Semmai, nell’era della rapina, facciamo ricerca, e dove scoppiano le bombe diamo voce, autentica, a un poeta.
Durante la Seconda guerra, Boris Pasternak pensava che fosse meglio tradurre William Shakespeare e Goethe più che imbracciare armi; a noi basterebbe, al posto di questo ipocrita irenismo da baraccone – tutto si compra e si consuma, anche la letteratura ucraina – leggere la frase che mobilita, nobilita e riassume tutta l’opera di Dostoevskij, “Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato individuale” (così ne I demoni). E andrebbero letti, se non ci fermassimo alla contestazione politica, alle constatazioni infernali, all’occasione di vendita e di profitto, ma alla statura spirituale, I racconti di un pellegrino russo, che dimostrano, come scrive Cristina Campo, “la Russia eccelsa e popolare, verticale ed ascetica che gravita e si alimenta intorno alle lavre e ai santuari, agli eremitaggi dei suoi taumaturghi e alle sue divinissime liturgie”, mica quella dei predicatori di mitraglie, di chi propala il male e la proprietà del sopruso, di chi benedice l’assassino. Bisogna andare all’“inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe” (Cristina Campo).
Il cardine della letteratura è tutta qui: perfezionare la lotta interiore, dotarci di un gesto ineffabile, affondare, semmai, nella cerca, totale, zitta. Il resto, le parole di buon senso, il qualunquismo dei buoni di cuore, la generica generosità con il prossimo, non sono che effetti promozionali, l’affettazione dei furbi, specchi per allocchi, atti a produrre cecità intellettuale. Così, Mondadori vende Ucraina con slogan slegati dal contesto editoriale, pura ucronia, utili a bonificare le folle in una massiccia operazione commerciale (naturalmente, a favore della popolazione ucraina): “I colori della bandiera ucraina tingono di giallo e di azzurro le piazze di numerosissime città italiane e del mondo intero. Milioni di persone, scese in strada, sventolano la bandiera dell’Ucraina insieme alla bandiera arcobaleno chiedendo pace e libertà. Oltre due milioni di profughi hanno lasciato il loro Paese per cercare rifugio e salvezza in tutta Europa. Le organizzazioni del terzo settore sono mobilitate per accogliere i profughi e aiutarli. L’operazione umanitaria in corso è gigantesca. Il Papa invita a pregare per la pace. Il mondo intero sta col fiato sospeso, attende e spera”. Ma cosa c’entrano queste frasi, belle & fasulle, con il progetto letterario messo in vendita?
Ovvio, l’operazione editoriale convincerà tutti – d’altronde, della letteratura importa a nessuno. In effetti, chi li ferma più questi? Sorridono, fieri della loro rotonda “buona azione culturale”, mentre gli altri, altrove, in Ucraina, muoiono. Più muoiono, più l’azione sarà culturalmente nobile. Uno schifo, ecco.