Ogni volta che mi sono sentito chiedere un parere sul musicista che ritengo più influente della storia della musica pop/rock, non ho mai avuto mezza esitazione nel pronunciare il nome di Brian Wilson. Stiamo parlando di un compositore e di un performer che incarna alla perfezione la personificazione della “fonte di ispirazione”. Wilson è stato in grado di plasmare, a colpi di armonia e melodia, ma anche di sonorità e tecniche di registrazione, il pop/rock prodotto negli ultimi sessant’anni. E lo ha fatto, sia andando ad insinuarsi tra le trame sonore di artisti suoi contemporanei, che in quelle di band e solisti che sono approdati al debutto anche in tempi molto più recenti. Lontanissimo dall’essere un personaggio o, anche solo banalmente una popstar, ha vissuto i suoi malesseri interiori e i suoi eccessi non per adattarsi all’appartenenza ad un ambiente come quello del music business, ma più per la necessità di salvarsi dalla forma che questo ambiente richiede, rifugiandosi nella sostanza.

Lungi da me dal ritenere le droghe una componente quasi necessaria per esprimersi al meglio in certi ambiti ma, nel caso di Wilson, non si può certo dire che ne abbiano intaccato il risultato. Perché agli eccessi lui ha veramente dato del tu. La narrazione della storia dei Beach Boys è piena di aneddoti che descrivono questo suo lato. Si racconta di prove eseguite sdraiato sul pavimento, con il microfono che penzolava dal soffitto per l’impossibilità di reggersi in piedi e di altri episodi di questo genere, mentre gli giravano per casa personaggi come Charles Manson e altri reietti di simile calibro. Nel frattempo, però, dalla sua penna uscivano capolavori come “God Only Knows” e “You Still Believe In Me”, passando per “Good Vibrations” o “Wouldn’t It Be Nice” o interi album epocali come “Pet Sounds”. Non esiste un passo falso o una caduta di qualità in tutto il repertorio che ha firmato e la cosa straordinaria è che tutto questo era semplicemente scritto nel suo codice genetico. Prova ne è che, “i ragazzi da spiaggia”, sono sempre stati un affare di famiglia. Chi ha il mio stesso vizio di sezionare ciò che ama per arrivarne alla compressione massima, sa perfettamente che, Carl e Dennis, seppur dotati di un talento straordinario, senza il genio e la capacità di essere leader - per elezione naturale - del loro fratello maggiore, non sarebbero mai andati oltre all’essere ottimi musicisti.

Come spesso accade nella musica, si arriva a conoscere ciò che ha dato vita alle nostre pulsioni adolescenziali (e qui non c’entrano gli ormoni) compiendo un percorso a ritroso. Quindi, anche in questo caso, per me, è stato così. Mi ricordo il ciclone che mi investì al primo ascolto dell’album omonimo dei Ramones e solo anni dopo capii che, tutto quello che usciva da quei solchi, era farina del sacco dei Beach Boys, e Brian Wilson era il mugnaio che l’aveva macinata. Ecco, credo che questo esempio sia il più emblematico che si possa citare: distanza abissale tra l’approccio espressivo delle due band ma un innegabile e unico filo conduttore. Anche tutto il power pop e il pop-punk (definizione che ho sempre odiato ma… tant’è) che ascoltiamo da decenni, ha in sé una fortissima componente “wilsoniana”. Dai Bay City Rollers ai Green Day, da David Bowie ai Jesus and Mary Chain e via via tutti i fenomeni musicali a livello planetario che ne sono stati ben più che sfiorati. Quello che fa una gemma pura, è risplendere di una luce che si irradia su chi la ammira. Quello che ha fatto Brian Wilson è esattamente questo. Sì, per quanto mi riguarda, se ne è andata una parte enorme della musica che tutti noi amiamo, spesso, senza sapere quanto di lui ci sia dentro. Ho esagerato? Non mi importa, tanto lo faccio sempre.
