C’è chi la verginità la perde con una persona, chi con un disco. Manuel Agnelli l’ha persa ascoltando Heroin dei Velvet Underground. “Ero nel bar, seduto vicino al tavolo da biliardo, con la luce che entrava dalle vetrate. Ascoltavo Heroin. Non so se si può dire, ma anch'io ero molto psichedelico in quel momento, e sono rimasto colpitissimo. Le cuffiette del walkman, la luce, è stato lì che ho perso la mia verginità musicale”. Il racconto arriva durante l’intervista a Supernova, il podcast di Alessandro Cattelan. Quello che emerge dalla conversazione è Agnelli, al suo meglio. Più artista che giudice televisivo, anche se rivela che con X Factor ha potuto essere sé stesso. Ma c’è anche il racconto di come ha perso l’altra verginità, quella sessuale: “Avevo 17 anni, in Germania. Ero nella stanza di un mio amico. Fu un’esperienza meravigliosa. Lei si chiamava Sabine ed era una fatina, una ragazza di una bellezza straordinaria, dolcissima, aveva una naturalezza nell’affrontare il sesso che in questo Paese non esiste”. Una vita in viaggio, come quando, a New York, seduto in un bar sulla Avenue A, pioveva a dirotto, e chi vede passare in bici con un colbacco in testa? Piero Pelù. “Aveva comprato la bicicletta lì, una Diablo. Dico: mamma mia, che coincidenza meravigliosa. Poi lo porto a visitare tutti posti che se uno non è specializzato non li scopre, finché a un certo punto non ci rubano la bicicletta. Così andiamo alla prima stazione di polizia a denunciare il furto, con Piero che all'epoca aveva dei boccoli blu e questo pizzetto mezzo blu e mezzo nero. I poliziotti ci hanno guardato con molta preoccupazione, perché sembravamo dei deficienti totali”. In senso positivo, ovviamente.

Altri tempi, anche a livello musicale, anche se il cantante degli Afterhours vede speranza, oltre il rap e le mode. L’esempio è quello del C.i.q. a Corvetto: “Un centro sociale di ragazzi di colore di una certa età, con le nonne che preparano da mangiare. Vado a sentire mia figlia suonare e scopro che c'è una nuova scena di ragazzini che suonano come delle bestie, si incontrano, pogano come dei disperati. C'era il tecnico coi dread e un cannone gigante, che tirava dal chilum e alzava il volume senza capire quello che stava succedendo. Una scena meravigliosa, ho detto: caz*o, era da tanto che non venivo disturbato da quello che mi accade intorno”. La parola chiave è disturbo. Per Agnelli non è un male, è il segnale di un qualcosa che smuove il mortorio creativo della moda, della consuetudine. L’origine dell’arte. Anche quando quella sensazione rasenta il disgusto. “Young Signorino, per esempio. Quando l'ho ascoltato ho pensato: ma questa roba fa cagare a più livelli. Poi, però, mi sono detto: caz*o, finalmente qualcuno che mi disgusta”. Il confine tra schifo e genio, tra fastidio e valore, è sottile e soggettivo. Ma ciò che disturba, in qualche modo, è un segno di vita.

Poi c’è la riflessione teorica, filosofica, sulla tecnologia come ossessione collettiva. Agnelli spiega: “Un progresso filosofico c'è stato nella storia, ma negli ultimi tempi quello tecnologico è stato incredibile. Così, come specie, abbiamo puntato tutto su quello, tanto che adesso la tecnologia regola le nostre vite, ne siamo dipendenti. Anche dal punto di vista filosofico, di visione della vita. Dovremmo tornare, o arrivare, ad avere una consapevolezza diversa”. Il problema è che la tecnica ha superato la visione. La potenza del mezzo ha zittito il fine. “Prendi le guerre: una volta se morivano 10mila persone era una strage incredibile, adesso ne possono morire anche 10mila al giorno. La tecnologia serve quindi anche a creare danni sempre più grandi. Non voglio fare il luddista, e dire che bisognerebbe distruggere le macchine, però è vero che un progresso filosofico tale da raggiungere le comunità intere, è ancora lontano”. Soprattutto, aggiungeremmo, in un’epoca che delega il pensiero alle intelligenze artificiali.

