Spesso si cita, anche a sproposito, una frase del linguista Tullio De Mauro: “La democrazia vive se c’è un buon livello di cultura diffusa. Se questo non c'è, le istituzioni democratiche – pur sempre migliori dei totalitarismi e dei fascismi – sono forme vuote”. D’altronde è anche ciò che credeva anche il politologo Giovanni Sartori quando nel 1970 scriveva che l’Italia era affetta da “analfabetismo politologico”. È dalla sapienza che, fin dall’antichità, muove la libertà. E la sapienza, poi, cresce con l’aumentare della libertà. Oggi la libertà, così come la conoscenza, sono sotto attacco. Donald Trump sta combattendo platealmente contro la libertà accademica, mentre il suo Segretario alla salute Robert Kennedy Jr. ha licenziato tutte le figure del Comitato vaccini degli Stati Uniti, non senza prima aver rischiato di far scoppiare un’epidemia di morbillo in Texas e aver pubblicato un dossier pieno di citazioni scientifiche false, perché probabilmente prodotto con intelligenza artificiale. In Italia, ancora con Sartori, la politica è stata governata dall’ignoranza rivendicata in modo trasversale: basti pensare all’approccio nazionalpopolare del Movimento 5 Stelle, tra scie chimiche e cospirazioni, alla corrente anti-intellettuale dell’Msi e all’era berlusconiana, fatta di bikini, lustrini e barzellette (arma, secondo Zizek, di distrazione di massa e controllo totalitario, alla maniera di Brazil di Terry Gillian). Dal cambiamento climatico alla storia del Medio Oriente, dalle fake news su X ai risultati delle prove invalsi in Italia, passando per le percentuali fasulle di lodi alla maturità del Sud che giustificano l’analfabetismo di ritorno.
In Occidente, ma si potrebbe dire nel mondo, sfioriamo la barbarie. Non quella positiva e ottimista di Alessandro Baricco, quella dei surfer della cultura, delle generazioni 2.0, dei giovani incuriosisti ma abili, veloci, brillanti e multitasking. Ma una barbarie classica, quasi un’antidemocrazia, nell’accezione di De Mauro. È contro questa deriva che Jaques Attali si impegna, stavolta, con un grande saggio, Conoscenza o barbarie (Fazi, 2025), una controstoria dell’umanità a partire da una domanda fatidica: quale impatto ha avuto la difesa e l’incentivo alla conoscenza nelle nostre società? E cioè: come sarebbe andata se la conoscenza non fosse stata una virtù fin dall’inizio. Una risposta potrebbe essere simile a quella che darebbe un altro intellettuale, il filosofo Jünger Habermas: senza conoscenza la società civile è semplicemente impossibile. Un esempio di barbarie, che impossibilita la capacità stessa di creare comunità è, indovinate un po’, l’Italia? “Nel 2016, il tasso di abbandono scolastico è del 13,8 per cento contro l’8,8 in Francia e un media europea del 10,8. Tra il 2008 e il 2015, quasi il 35 per cento degli italiani svolge lavori diversi dagli studi effettuati, tasso trai più alti in Europa. Nel 2017, solo il 25 per cento dei ragazzi tra i venticinque e i trentaquattro anni ha una laurea, mentre per i 35 paesi membro dell’Ocse la media è del 43,1 per cento; inoltre, come in molti paesi mergenti, 260.000 laureati under quaranta trasferiti all’estero”.

La soluzione di Attali? Semplice. Un investimento totale, cosciente, massiccio, a lungo termine per l’istruzione, da intendersi come parte della “economia della vita”: “Le spese pro capite per l’istruzione dovranno aumentare massicciamente e raggiungere livelli senza precedenti; ciò comporterà la necessità di destinarvi almeno il 10 per cento del Pil entro il 2050”. Gli insegnanti? Non potranno essere trattati come si usa oggi: “Gli insegnanti a tempo pieno dovranno beneficiare di un reddito superiore alla media dei redditi di coloro che hanno conseguito lauree equivalenti”. Bisogna anche immaginare la scuola come destinata a “un grande futuro commerciale e strategico”. Questo prevede anche sinergia tra pubblico e privato, “a condizione di obbedire a un preciso statuto che definisca i loro [delle scuole private, ndr] diritti e doveri, essendo depositarie di un servizio pubblico”. E poi il colpo di genio, la mossa che rende Attali differente da tutti gli altri falsi profeti di un futuro esclusivamente tecnodipendente: “Le abilità artistiche dovranno essere valorizzate e trasmesse: avremo sempre più bisogno di musicisti, sarti, orafi, tessitori, giardinieri, paesaggi, fotografi, registi, cineasti, attori, acrobati, clown, maghi, sceneggiatori, attori, sarti, orafi, tessitori, giardinieri, paesaggisti, fotografi, registi, cineasti, attori, acrobati, clown, maghi, sceneggiatori, attori, cantanti, editori, tipografi, curatori di musei e di mostre, archeologi”. Nei bambini dovremo coltivare “il rispetto di se stessi e quello dei tabù, la motivazione, il coraggio, l’originalità, il gusto per la fatica, la creatività, la curiosità, lo spirito critico, il rifiuto del conformismo, la capacità di osservazione, l’intelligenza emotiva, la capacità di convincere, la capacità di resilienza, l’attitudine ad ascoltare gli altri e cambiare idea, la benevolenza, l’empatia, il rispetto per la vita degli altri e il bene comune, il piacere del lavoro di squadra, l’altruismo nei confronti dei contemporanei e delle generazioni future”. Possono sembrare semplici elenchi, catene di idee in un momento particolarmente ispirato. E invece è la conclusione di 430 pagine di analisi e storia della conoscenza nelle grandi civiltà, un resoconto attendibile e una proposta pragmatica per far sì che la barbarie torni ad allontanarsi.
