Dago sta a Roma come i facioli stanno alle cotiche. Fatto sta che Roma Santa e Dannata, il docufilm di Roberto D'Agostino e Marco Giusti presentato alla Festa del Cinema di Roma il 27 ottobre, con la regia di Daniele Ciprì è una apologia di una romanità che tende a ripercorrere i fasti di un proprio tempo passato, in virtù di una ricerca dell'inafferrabilità che rende Roma ‘santa e dissoluta’, binomio caro a Franco Califano e al Muro del Canto, che con il Piotta l’ha messa in musica. "Roma ama e non perdona", per fare una citazione, eldorado di folle erranti che vi approdano da tutte le parti del mondo, trovandovi riparo. Questo è quel che chi non vi abita di certo vede in lei, dato che la Capitale è sogno e meta ambita dai forestieri. Almeno di questi tempi bui. Perché a stare a sentire i racconti di chi l'ha vissuta durante la celeberrima temperie mondana ricordata come Dolcevita, tanto per contestualizzare, Roma era un sogno. La Roma delle feste mondane di Paolo Sorrentino, sulle terrazze, con i paparazzi, le dive, i playboy, ma anche delle borgate, delle periferie pasoliniane. Quella Roma narrata anche da Remo Remotti in Mamma Roma Addio, la Roma ‘puttanona, borghese, fascistoide’, quella Roma del "volemose bene e annamo avanti", delle pizzerie, delle latterie, dei "Sali e Tabacchi", degli "Erbaggi e Frutta", quella Roma dei castagnacci, dei maritozzi con la panna e senza panna, dei mostaccioli e caramelle, dei supplì, dei lupini, delle mosciarelle. Quella Roma dalla quale Remotti osservava "degli attici con la vista, la Roma di piazza Bologna, dei Parioli, di via Veneto, di via Gregoriana, quella dannunziana, quella barocca, quella eterna, quella imperiale, quella vecchia, quella stravecchia, quella turistica, quella di giorno, quella di notte, dell'orchestrina a piazza Esedra, la Roma fascista di Piacentini, che ci invidiano tutti, la Roma caput mundi, del Colosseo, quella Roma sempre con il sole - estate e inverno - quella Roma che è meglio di Milano". A distanza di anni dal dopoguerra la cultura pare essersi fermata a quel periodo, celebrazione sempiterna del tempo che fu, dell’eccellenza italiana del passato, del cinema, soprattutto, in un vano tentativo di riproporlo ma svuotato di senso nelle sue copie perpetue odierne. Un guardare indietro senza un reale processo di crescita, senza prospettive, solo la condanna a rivangare un passato glorioso e bearsene, che appare così povero, così stupido. E Roma appare così malinconica nelle tracce della sua storia.
Esistono svariate guide fiorite ovunque che dovrebbero costituire una luce per tutti coloro che approcciano a Roma Caput Mundi. Ma noi che di Roma ne sapemo a pacchi possiamo svelare ai lettori di MOW che nessuna di queste corrisponde davvero al modo più esatto di approcciarsi a questa sorta di scrofa - in accezione faunistica - che tutti accoglie e a tutti fa da mamma. Il codice romano - o meglio romanesco - è mutato nel tempo ma soprattutto nel'essenza più propria. Quell’identità che tutti bramano e immaginano a suon di tovagliette a quadretti e fiasco impagliato poste sotto al mentore del libero pensiero arso sulla pira a Campo de Fiori, Giordano Bruno, si è persa nella notte dei tempi. Oggi in quella Piazza dove la Sora Lella - altra celeberrima icona romana riprodotta ormai come un santino di Padre Pio su stampe e grambiuli - comprava i peperoni per la sua Trattoria all'Isola Tiberina, vi sono cicoriare riottose che incartano gli ultimi fichi nei pirottini come fossero gateaux per attrarre ricche turiste, e non più foglie di cavolo per umili massaie. Il centro storico che in molti sognano intatto nella sua veracità ha assunto sembianze di un Gardaland per il turismo, con paste scongelate al microonde prodotte da cuochi bangla sottopagati. I romani però continuano lieti a difendere sdegnati la carbonara da possibili mistificazioni estere, attaccandosi al sacrilegio dell'aggiunta della panna. Peccato che nei ristoranti autoctoni ordinino ignoranti pastoni intrisi di crema allo zabaione da divorare con l’occhio bovino. Roma mantiene comunque bizzarramente un certo ritardo, nel suo sviluppo verso l’essere una metropoli, conservando una reticenza tutta sua, se non nell’omologarsi, almeno nel fiorire in direzione di un upgrade dei servizi come altre Capitali. Roma romanizza ogni cosa, chi arriva a Roma presto o tardi si corrompe, ne assume i tempi lenti, al contempo infernali, burocratici, clientelistici, si fa le spalle grosse, ‘abbozza’, stringe mani, tace quando dovrebbe parlare. Rimpolpa l’intoccabilità, di Roma. Ai romani non je toccà Roma. Nun je devi toccà Roma. Ma la domanda da porsi non è tanto "quando la presunta romanità con derivazione coatta si è inserita nell’ intrattenimento, a livello mediatico e nell’informazione" , ma cosa piaccia adesso al mondo al punto da fare trend, al punto che Milano, che non ci ha mai degnato di uno sguardo ora ci corteggi e stia ad osservarci come una specie di pregiato pappagallo esotico in gabbia. Questo mood sciallo, trasandato, strascicato, sciatto ha iniziato ad insinuarsi nella televisione forse con Maurizio Costanzo, che soleva alternare un ottimo italiano a brevi incursioni e dérapage nel romanesco, cosa che può permettersi di fare chi è padrone della lingua. Poi è stata la volta di Paolo Bonolis, attingendo da Alberto Sordi, faro per tanti romani al pari della amatissima Anna Magnani, Mamma Roma pasoliniana sguaiata che canta ‘Fior de gaggìa’, che ha gettato una sorta di maledizione di Lot su Roma, in modo che chiunque osasse procedere verso un futuro di una Capitale diversa diventasse di sale, visto quanto l’attrice sia abusata nelle copertine dei festival del cinema, manco ne fosse la santa patrona.
Ad ogni modo, la cesura con un passato dove i costumi, gli usi romani avevano il garbo e l'eleganza, nella semplicità dei tempi, quella è avvenuta via via, dando luogo al trionfo del simulacro dei luoghi comuni di Roma, privati della verace purezza di allora. Mettiamoci pure l'orgoglio borgataro che Pasolini tanto amò per la sua purezza, appunto, contrapposta alla corruzione borghese ipocrita, a spingere questa nuova romanità ad ammantarsi della sacra liceità di essere borgatari e vantarsene un mondo, senza conservarne l’autentico candore, che le mano a paletta e gli ‘anvedi questo’ sono diventati sinonimo di "simpatia" e "modi schietti", quando di simpatico e schietto non vi è proprio nulla se non una enorme quantità di volgare coatta maleducazione. Questo in ogni cosa, nella musica come nel degrado del pensiero divenuto superficiale in ogni sua applicazione. Nel cinema, con la sua casta imposta al pubblico dei pochi soliti noti assurti a star senza averne la stoffa, sotto lo stendardo di una autorevolezza concessagli da non si sa bene chi, con questo eterno rifarsi ad attori del grande passato di gloria cinematografica neorealista, a livello letterario e politico. Il docufilm di Dago è un pot pourri celebrativo delle grandi imprese in una Roma irripetibile che pare cristallizzata nella nostalgia incorrotta di un eterno ricordo, di una Dolce Vita destinata a ripetersi per sempre, anche in assenza dei suoi eroi, riprodotta sempre più sbiadita su pellicole ormai caricaturali. Gesta che altri a modo loro hanno elencato, da Remo Remotti a Sorrentino, da Rino Barillari documentando le cronache scandalistiche dei tempi, a Renato Zero nei racconti di gioventù quando si cambiava nell'atrio del palazzo del Quartiere popolare Montagnola per uscire a dare scandalo coperto di lustrini e raggiungere l'amica Loredana Bertè.
Quelli erano i tempi immortalati in film come Poveri ma belli prima e in quelli di federico Fellini poi. E ancora quel flusso narrativo e creativo del folklore e dello splendore di Roma che ha subito un arresto e ancora si va avanti replicandolo come se si stesse rianimando un cadavere, si stia celebrando una statua di cera in dissolvimento. Tutti i romani di una generazione precedente alla odierna hanno aneddoti della romanità da raccontare, un patrimonio culturale collettivo e personale da tramandare, se non riguardo alla Roma vipparola di Dago, di certo nella memoria dei nonni o negli incontri e nella quotidianità. Celebre fu però l’episodio calcistico recente, risalente al periodo in cui Jose Mourinho, amatissimo allenatore della Roma, si apprestava ad arrivare dai suoi amati tifosi e a loro dedicò un ‘Daje!’ di gioia, che apparve sui titoli dei giornali. Ebbene una giornalista televisiva straniera si sperticò in diretta tentando di tradurre lo slogan che da una decade è assurta a grido unanime e fiero della centuria romanesca. "...deje? Dage?" Si interrogava senza capire. Ogni giorno Roma si fa teatro di scene di cui gli attori sono i baristi, i pizzardoni, gli impiegati, le varie ‘Sirvana’, con gli sfottò tra laziali e romanisti, in una coralità infinita con la quale assuefarsi felici o morire.
Certo la Roma in cui smarrirsi da provinciale è ancora qui, per dirla con Arbasino, ‘nato a Voghera ma rinato a Roma’, cit, ma le generazioni più recenti hanno conosciuto solo per sentito dire la Roma mitica dei tempi in cui era Capitale del cinema, della cultura, degli intellettuali e dei divi nelle sue vie, contrapposta alla triste Milano. Ma anche quella più popolare, modesta, più intima.
La Roma dell’’annamose a riccoie sta frittata’ dei portantini sbracati nella chiostrina dell’Umberto I’immortalati da Verdone in ‘Un sacco bello’ non esiste più e se c’è è nascosta in qualche vecchio quartiere. Di certo il centro storico di ‘Poveri ma Belli’ dove Giovanna (Marisa Allasio) incontrava Salvatore e Romolo ne è priva. Triste dirlo ma ora serpeggia un malumore violento, a Roma, un’aria di stanchezza, di rabbioso malcontento, di diffidenza, che nessuno ammette veramente.
È come se non si volesse guardare, indagare, capire, cercare l’anello che non tiene di Montale per scoprire dov’è stato il corto circuito, cosa è successo, perché siamo condannati a dire che va tutto bene, in questa finzione di normalità che cela pietosa una perdita clamorosa di contenuti e un passato destinato alla sempiterna cristallizzazione, con un futuro che non giunge. Quello spirito comunitario è andato perdendosi via via tra il senso di abbandono che ha pervaso i valori della romanità e anche i suoi vicoli, sempre più sporchi nella loro aura poetica appannata. I romani che fanno ahò, quelli ci sono ancora. Ma hanno il sapore di uno slogan al quale ci si attacca per rispetto, per amore. Disperazione. Perfino la processione per il divino amore, immortalata anche da Sordi ne Il tassinaro, ha mutato la sua allure intrisa di popolare sacralità e il sogno proibito ricorrente è un vecchio tavolino al sole di Garbatella dove trovare pace senza che accorra qualcuno a chiedere ‘cosa prende’. Oggi al posto del bicchiere da osteria di acqua del Sindaco buttato li senza pretese deve esserci almeno un’acqua naturale in bottiglia a giustificare la sosta e un supplì democratico al volo su una vecchia panchina è diventato cosa rara da trovare. Forse questa era parte della romanità, insieme a quella degli intellettuali a pranzo al Matriciano o al Bolognese di cui parlava Arbasino o Flaiano. Così come scomparso è un pidocchietto dove vedere un film d’essai, una pergola dove farsi ‘un quartino e una palletta’, una partita a carte. Si parla della Roma che fu perche non si può parlare di quella di oggi. E non si può dire, che forse è il problema più grande da porci. Soprattutto al cinema. Che resta vivo e vegeto ma come simulacro del passato, eretto a radice semantica da sbattere sui manifesti svuotato di senso, in un romanesco che è diventato coatto e non più lingua, fatto di uno slang che di romano ha poco e niente. A colpi di ‘bella regà’ abbiamo conquistato la nostra fetta di musica allevando nuovi profeti del cantautorato sbiascicato dai nomi falsamente indie o trap, Achille Lauro e Calcutta su tutti e sui social siamo misteriosamente glam, richiestissimi ormai. Viene da chiederci cosa consegneremo alle nuove generazioni se già sono privi per nascita dei sorcini di Renato, dei Pini di Roma di Venditti, di Porta Portese di Baglioni? Manco le pastarelle della domenica, avranno, visti i seitan iperproteici odierni. Di questo ‘io so io e voi nun siete un cazzo’ del Marchese del Grillo i romani ne hanno fatto un mantra, e invece di battersi il petto per il fatto iniquo di veicolare tanto vacuo, maleducato disimpegno in giro, ne sono fieri.
Il graduale imbarbarimento culturale derivante dal ventennio berlusconiano con la stura massiccia del trash reso fruibile a tutti, volto ad abbassare gli intelletti e gli standard qualitativi del pensiero ha sdoganato una decadenza linguistica dilagante anche nell’informazione. La televisione romana, ormai senza i criteri di buongusto in fatto di espressione ha invaso le case degli italiani, costretti a sorbirsi l’idioma natìo incoattito anche a Cernusco. A Roma l’innesto di questa caduta vertiginosa nel grandioso festival della decadenza di programmi televisivi di qualità, di satira, di didattica scolastica, in una parola ‘culturale’, ha favorito la perdita di quel sapore romano, fatto di cura e genuinità dei costumi. Il linguaggio ha sdoganato modi di fare cafoni prèt à porter, che se prima erano propri solo delle periferie, oggi sono tutti, in un triste rimpallo tra modello offerto e ricezione di popolo. ‘La realtà locale sta sparendo a favore di un unico grande spersonalizzato meticciato’, commenta Riccardo Mameli, tassinaro romano con la passione radiofonica. Beffa del destino, l’idea di Roma e l’eco della sua essenza, condensati in un pallido prodotto senza cuore derivante dagli scarti del processo di impoverimento e trasformazione, fa faville e attrae chi di Roma pensa di catturarne lo spirito. Il documentario di Dago è dunque l’ennesima celebrazione di una vita romana che non c'è più e della quale si attende ancora l’eredità morale da mettere nel libro della storia che valga la pena ricordare. A noi non resta che osservare questo triste funerale, magari seduti sur Fontanone del Gianicolo, fatto di una Roma al ribasso, di professioni ormai improvvisate, influencer assurti a intellettuali, film senza senso e relativi red carpet di replicanti. Rifiutandoci quantomeno di farne addirittura l’elogio.