Tommaso Zanello, in arte Piotta, è una figura mitologica della scena musicale italiana, settore curva del rap. Protagonista di un percorso molto denso, è passato dal purismo hip hop, a grandi successi commerciali, fino a collaborazioni con musicisti di tutt’altra estrazione, come Pierpaolo Capovilla e Roy Paci.
Durante le proteste contro la riforma Gelmini, nel 2009/2010, il suo brano La Grande Onda scaldava i motori degli impianti stereo arrangiati nelle occupazioni dei licei. Oggi Piotta incarna ancora una volta la romanità, firmando la colonna sonora originale dell’ultima stagione di Suburra, componendo 10 brani inediti che caratterizzano i vari protagonisti della serie.
“Sto andando in studio a fette, perciò se mi senti in affanno è che sto facendo ‘na salita terribile, quella di Sant’Agnese nel quartiere Africano… e già ci sta il Covid e il lockdown e fa buio presto… pare di stare dentro Blade Runner ormai, almeno due passi a piedi me li devo fa’ per il quartiere, mi dà sempre gusto” mi dice, quando lo raggiungo al telefono.
Come è nata la collaborazione con Suburra e con Netflix?
Tutto parte dalla mia canzone 7 vizi capitale, che è diventata la sigla di Suburra dalla prima stagione. Per me era bello già così perché anzitutto era la prima produzione Netflix in Italia, avrebbe dato visibilità ad ampio spettro al brano. Il rapporto di collaborazione è proseguito anche nella seconda stagione dove ho fornito consulenza per le sincronizzazioni e per la selezione di alcuni brani rap. E poi eccoci qui, alla terza stagione, che è stato un megamix: consulenza e colonna sonora originale. Una sfida totale perché è stata un’operazione organica. Io e Francesco Santalucia, che ha curato con me la colonna sonora, abbiamo voluto tracciare una canzone specifica per ogni personaggio, che rispecchiasse il mood corale di Suburra. Si passa dalle barre vecchia maniera per Cuore Nero, dedicata a Samurai, a pezzi più uptempo come La Giostra, volutamente nomade come sound.
Come è stato lavorare ad un progetto che non coinvolge solo la tua di creatività? Hai avuto le stesse libertà di quando produci i tuoi dischi?
Devo dire che ho potuto fare diverse proposte, c’era sempre un confronto e un dialogo con Netflix. L’ultima parola non poteva essere la mia visto che si trattava di un lavoro su commissione, ma se non fossi stato convinto di quello che ho prodotto non ci avrei fatto un album. È stato figo confrontarsi con una realtà così grossa, cioè i nostri brani li hanno ascoltati in 190 paesi, fa impressione solo a pensarci.
Cosa ne pensi di tutto il dibattito circa la possibilità che serie come Gomorra o come Suburra possano normalizzare, se non addirittura idolatrare la criminalità? È un discorso che si potrebbe - o si sarebbe dovuto - applicare anche ai testi rap, anche nel nostro Paese.
Mi è sembrato sempre assurdo sto modo di pensare. Suburra è palesemente finzione, sono tutti antieroi e non ci sta manco un “buono” sullo sfondo, è talmente palese che sia una serie crime che mi fa strano pensare che qualcuno possa essere invogliato ad emulare certe azioni. È un gioco di finzione, l’arte alla fine deve poter fare questo no? Tutt’al più, rispetto alla trap, mi preoccuperei più per il fatto che pubblico è spesso bambinesco e, probabilmente, non in grado di cogliere questo aspetto ludico della narrazione. Il rap è un gioco, è uno stressare quell’1% di fatti reali, il resto 99% è finzione che serve ad acchiappare. Il problema con la trap si crea con la figura del cantante: nelle serie tv ci sono attori, nessuno penserebbe mai che Borghi va in giro a sparar in testa alla gente. Il cantante corre il rischio di sembrare un’incarnazione reale di quello che dice nei testi.
“A me non interessa il centro commerciale, a me interessa il mio negozietto. Non mi è mai piaciuto sottostare alle regole altrui, né di un genitore né del mercato. Apro e chiudo quando voglio” hai detto in un’intervista del 2015. Questa mentalità ti ha precluso qualcosa? Hai dei rimpianti?
Non ho rimpianti, questa frase mi rispecchia ancora oggi. Poi ovvio che mi ha precluso qualcosa: penso in termini economici, di popolarità di massa, presenza sul web come influencer… ma non lo dico con rancore bensì con cognizione, perché per me ciò che conta sono i concerti e il contatto con le persone durante i live. E soprattutto conta tanto poter andare in studio e portare nei miei lavori i cazzi che raccolgo durante la vita e trasformarli in qualcosa che possa lasciare un segno, in primis a me. Non potrei non godere di libertà espressiva totale, anche se so che in termini commerciali è uno svantaggio.
Però sei andato a Sanremo. Come sei arrivato a scegliere di confrontarti con quel palco e con quel tipo di pubblico?
Rispetto a tanti colleghi e amici della scena rap, io sono sempre stato curioso. Il festival del 2004 è stato l’unico organizzato da Tony Renis, che avendo vissuto in America voleva proporre qualcosa che venisse dagli States, e la mia etichetta di allora pensò che facendo Sanremo avremmo ottenuto più visibilità con l’album che era in uscita, Tommaso.
Un bel passo però per un rapper underground andare a Sanremo.
Al netto di come è andata, avrei voluto viverla diversamente. Purtroppo poco prima dell’inizio del Festival seppi che a mia madre restavano tre mesi di vita. Avrei voluto salire sul palco e fare un po’ di scandalo, creare scompiglio, ma avevo il pensiero fisso di mia madre ricoverata che poteva guardarmi in tv e le potevano rompere le palle. Lei era la classica mamma italiana, ok avevo fatto hit come Supercafone e La Grande Onda, ma per lei Sanremo era Sanremo, cioè se tuo figlio arriva a Sanremo ha svoltato, è davvero un cantante! Lo rifarei cento volte Sanremo solo per fare contenta mia mamma. Però se potessi rifarlo, lo farei aggressivo. Calcola c’avevo Bossi davanti a me quando mi esibivo e volevo fargli un freestyle, un quattro quarti cafone che avrebbe fatto parlare i giornali.
Del panorama attuale trap e rap c’è qualcuno che ti colpisce?
Mezzosangue, Rancore… ci sta un ragazzetto bravo davvero, Ozymandias, che è una mina sul beat. Ma poi un po’ la scena romana come Franchino126, gli Psicolog anche mi piacciono molto.
Pensi che manchi retroterra culturale alla scena di oggi? Si può coniugare musica coi contenuti e grandi numeri?
Beh Caparezza è l’esempio lampante di come coniugare numeri e qualità. Poi ti dico, nella trap è tutto molto piatto e arido, già l’indie cerca di sfruttare di più lo specchietto retrovisore per così dire, cercando di trasmettere qualcosa. La trap non lo fa, a modo loro sono un po’ futuristi, non gli frega nulla, manco sono legati alla scena vecchia. Sono scelte, magari sincere, magari studiate a tavolino a volte. Per me purtroppo è fondamentale leggere, scrivere, conoscere, guardare film e studiare il passato e la realtà che mi circonda.
Una volta hai detto che la tua nemesi, artisticamente parlando, è Gue Pequeno. Hai ascoltato il suo ultimo album, Mr. Fini?
Non ho sentito l’ultimo album ma non ho nulla contro Cosimo. Abbiamo percorsi differenti, e nessuno può negargli la sua bravura come MC e timbro vocale oltre che di gestione della sua carriera. È stato capace di entrare nel pubblico giovane e di fare collaborazioni importanti coi colleghi della scena attuale.
C’è stata da poco la finale di X-Factor. Faresti mai il giudice a un Talent?
Ah, c’era la finale? Beh, sticazzi! No scherzo, l’ho letto prima scorrendo le news su Google, ma quest’anno non ho seguito proprio! Ho giusto ascoltato degli inediti e devo dire che il livello di X-Factor si è alzato, hanno smesso di fare le serate-karaoke e si vede la presenza di colleghi come Manuel, come la Machete crew… ecco non sono come “Amici”. Giudice io? Mah, se la qualità fosse come quella di quest’anno e non ci fossero cover… mai dire mai se il prodotto è valido.
In Numero Zero, il documentario diretto da Enrico Bisi che parla dello sbarco della cultura hip hop in Italia viene spiegato bene come, per quelli della tua generazione, per quelli che hanno fatto rap in Italia, dalla fine degli anni 80, quella cosa lì, fosse la cosa più figa che c’era in circolazione, in quel momento. L’hip hop era avanguardia culturale. Chi non vi capiva, dal vostro punto di vista, era uno sfigato. Era lui che non sapeva cosa stava succedendo nel mondo. Esiste, qualcosa, oggi, di paragonabile a quel fenomeno?
Non esiste più niente di tutto questo. Eravamo figli di un periodo dove l’assenza di rete e di internet consentiva di fare dei percorsi musicali unici, delle esperienze diverse le une dalle altre. Oggi è piena omologazione… non c’è più quella conflittualità da noi contro loro.
Nella sigla di Suburra dici “tutto uguale a dumila anni fa” e ti rifersici a Roma, ma non è che l’umanità sia messa meglio. C’è speranza? O siamo tutti irrimediabilmente fregati?
No dai, tutti fregati non ce la faccio a dirlo nonostante il periodo oscuro, c’è speranza e resistenza sempre. È un periodo particolare, si fa fatica ad analizzarlo pensa a capirlo. Ci vorrà del tempo per capire a cosa porterà tutto questo. Di sicuro sentiamo tutti quanti che c’è in atto un cambiamento di quelli enormi, di quelli che metti un punto a capo. Se da ‘sto punto poi si chiuderà il libro o ci sarà un altro capitolo, beh lo vedremo.