Ogni anno, quando si avvicinano le feste natalizie, la scuola primaria, un tempo scuola elementare, frequentata da tutti e quattro i miei figli mi contatta. In realtà è una maestra della scuola che mi contatta, ma lo fa da parte della scuola, quindi va bene anche dire che la scuola mi contatta. Lo fa perché ogni anno, quando si avvicinano le feste natalizie, maestre, bambini, genitori, amici dei genitori, genitori di ex alunni, è il mio caso, danno vita a un libro solidale, cioè un libro il cui scopo è raccogliere fondi per un determinato progetto benefico: una scuola, un pozzo, una biblioteca, tutte diretti verso parti povere del mondo. Sono anni che ciò avviene, onestamente ho perso il corso, e ho sempre aderito con grande piacere. La mia parte, sono pur sempre uno scrittore, è quello di scrivere un racconto sul tema dell’anno. Si decide di raccogliere fondi per ricostruire il tetto di una scuola in un paesino del centro America, scrivo un racconto su un tetto, e via discorrendo. Quest’anno mi hanno chiesto un racconto sulle parole. O meglio sulle parole da ricucire, perché rovinata, strappata in questi tempi malandati. Quest’anno infatti, il libro solidale ha lo scopo di raccogliere fondi per aiutare sette neo-sarte specializzate di uno slum di Kampala, in Uganda, lo slum è una sorta di baraccopoli, di aprire una cooperativa professionale (se volete saperne di più andate qui xmasproject.org, e già che ci siete fate pure una donazione). Ho quindi iniziato a ragionare su quale parole avrei voluto rammendare, mettiamola così. La mia parola del cuore è parola. Che è un po’ come chiamare Giornale un giornale, direbbe un Paolo Rossi d’epoca. Parola, quindi. L’ho scelta senza neanche pensarci, perché è con la parola, anzi con le parole che passo buona parte delle giornate, e grazie alle parole vivo. Questo nonostante io viva in compagnia di altre cinque persone, e il mio lavoro, che in teoria appunto dovrebbe essere quello di scrivere parole, col tempo è diventato quello di dire parole, spesso in compagnia di un fottio di gente. Parola, perché con le parole vivo e grazie alle parole vivo. Vivo nel senso che con le parole mi guadagno da vivere, pragmaticamente, e vivo perché anche per chi ha scelto le parole come ferri del mestiere, il lavoro occupa una parte importante delle mie giornate, quindi confermo, per me le parole sono importanti, fondamentali. Dovrebbe essere così per tutti, perché le parole, la loro invenzione, il loro utilizzo, ci distinguono, come esseri umani, e perché è grazie alle parole che riusciamo a comunicare, anche nel mondo di oggi, così bombardato da input da aver svuotato tutto di significato, alleggerito di peso. Ecco, mi fermo su questa immagine.
Dire che qualcosa ha perso peso è oggi considerato automaticamente raccontare un evento cui guardare a prescindere con accondiscendenza. La forma fisica, cui il peso viene automaticamente riportato, è diventata centrale. Lo è diventata proprio perché nel mentre le parole hanno perso il loro potere, a favore dell’immagine, statica, pensate a Instagram, o in movimento, qui invece è a TikTok che dovete pensare, al successo planetario di Khaby Lame, divenuto una star senza mai aprire bocca. Lo è diventata perché gli stereotipi hanno preso il sopravvento, cancellando l’ipotesi di una pluralità di vedute, l’omologazione elevata all’ennesima potenza. Stereotipi, pluralità, omologazioni, parole magari difficili, ma che stanno lì a dirci cose che dovremmo imparare a conoscere. Se perdi peso, quindi, significa che scenderai di una taglia, diventerai per gli standard migliore, in barba alla body positivity e allo stigma sul body shaming tipico di questa epoca di cultura woke. Body positivity, body shaming, cultura woke, altre parole. Comunque, dicevo del perdere peso. Anche un discorso, se perde peso, sembra sia da considerare a prescindere migliore. “Certo che la lezione di oggi è stata pesante”, quante volte ve lo siete detti, o lo avete sentito dire a qualcuno. E se non fosse la lezione, pesante può essere una situazione, un’atmosfera, e qui ovviamente non si sta parlando di aria, ma di qualcosa legato al mondo delle sensazioni. Pesante sembra sempre essere qualcosa di negativo. Invece potremmo anche guardare il tutto da una prospettiva diversa, come il meme che gira sui social del tizio col maglione rosso che dice che se proprio uno non può farne a meno può fare una determinata cosa, salvo poi dire che volendo potrebbe anche non farla, una prospettiva diversa, appunto. Una mongolfiera che perda peso, per dire, volerà più in alto, ma senza alcun peso a bordo finirà per salire troppo in alto, portando chi vi viaggia sopra a fare una brutta fine disperso per l’esosfera (come diavolo si chiama ciò che sta all’esterno dell’atmosfera terrestre). Una persona di peso in un qualsiasi panorama professionale non è una persona cicciottella, obesa o in qualsiasi modo oggi si decida di chiamare chi non è in perfetta forma fisica, sembra che oggi obeso non si possa più dire, sempre per quella faccenda della cultura woke, del politicamente corretto e della cancel culture, ma in realtà è proprio obeso la parola che la scienza ha scelto per evitare che si dica ciccione, lo spiega bene Ricky Gervais in un suo spettacolo, anche questa cosa di dover ogni tot tempo cambiare parole per indicare determinate situazioni perché ritenute offensive è figlia dell’impoverimento del nostro lessico, e quindi della nostra capacità di ragionarci sopra. Una persona di peso in qualsiasi panorama è una figura di gran rilievo, fondamentale. Pesare bene le parole, del resto, è il modo che un tempo si usava per dire di non parlare tanto per, quindi di scegliere le parole con oculatezza, quelle adatte, quelle più efficaci, in modo da veicolare un messaggio senza correre rischi di fraintendimenti. Oculatezza, eccone un’altra. Pesante e pensante, in fondo, sono parole non così distanti tra loro, almeno come morfologia, pur non avendo la medesima etimologia. Quindi la parola che ho scelto è parola perché vorrei, sognare è sempre gratis, che prima o poi le parole tornassero a essere usate con cura, magari partendo da quelle contenute dentro i libri, quello il mio lavoro, mettere le parole dentro i libri. Perché avere a disposizione tante parole ci consente di fare pensieri articolati, autonomi, in grado di elevarsi, quello sì come una mongolfiera cui il pilota sa bene come gestire i pesi da gettare a terra.
Pensare con poche parole ci terrà sempre in un angolo, mentre chi di parole ne ha tante sarà capace di decidere per noi. Parlare con poche parole farà sì che il nostro dire sarà spesso frainteso, e ci renderà non solo più deboli e autonomi, ma anche più soli. Quindi, senza indugio, provate a fidarvi di chi delle parole ha cura, abbiate anche voi a cuore ogni singola parola che entrerà nel vostro vocabolario, e cercate di farvi entrare ogni giorno qualcuna in più. Vi do la mia parola, si dice quando si vuole convincere qualcuno che quel che stiamo dicendo è vero, come a mettere sul tavolo la cosa più preziosa che abbiamo. Una persona di parola è quindi una persona affidabile, cui guardare con stima, tutta di un pezzo. Integerrima, dicevano un tempo, che è poi come dire non solo tutto di un pezzo, ma il superlativo di interno, quindi tutto di un pezzo e anche di più. Sarà mica un caso che chi non è tutto di un pezzo, ma a pezzi, non se la sta affatto passando bene. Non è mai un caso quando si gioca con le parole. Anche quando non le si scrive, sia chiaro, nonostante quel che pensavano i latini, lì a distinguere tra le parole scritte, destinate a rimanere, e quelle dette a voce, volatili, volatili come una mongolfiera che sale verso l’esosfera, ovviamente, non nel senso di in grado di superare barriere e confini. Che ne sapevano loro che un giorno ci sarebbe stato modo di registrare la voce, rendendola permanente. Anzi, preminente, vista la scarsa attenzione che oggi si riserva alla parola scritta, su carta o in digitale. Permanere, permeare. Pensate quanto siano simili questi due verbi, quasi fossimo in presenza di un anagramma. Rimanere, passare attraverso. Ecco, credo che le parole facciano entrambe le cose. Restino, in qualche modo, lascino quindi un segno. E permeino, cioè passino attraverso, per quanto chi le riceve decida di essere impermeabile, o per quanto lo sia anche involontariamente. Le parole sono come le infiltrazioni d’acqua, trovano strade impensabili e impensate, dilagano, occupano spazi vuoti, allargano macchie laddove spazi vuoti non se ne trovano.
Per questo, non solo per questo ma anche per questo, quando mi capita di sentire buona parte delle canzoni che oggi vanno per la maggiore, e in genere mi capita quando sono in auto, sintonizzato su un qualche network proprio allo scopo di capire cosa passa il convento, invece di ricorrere alla consolatoria scelta di uno dei miei Cd, ecco, quando mi capita di sentire buona parte delle canzoni che oggi vanno per la maggiore provo un sussulto. Di più, provo sgomento, perché ascolto canzoni appoggiate su un vocabolario scarso, scarsissimo. Un vocabolario che esprime di conseguenza concetti bassi, spesso beceri, e che veicola quel tipo di messaggi presso un uditorio spesso giovane, giovanissimo. Di più un vocabolario destinato a formare il vocabolario di chi ascolta, il solo scelto presumibilmente per propria scelta, a fianco a quello derivato dalla famiglia e dalla scuola. Con quel vocabolario non si potranno che portare avanti cattivi pensieri, pensieri poveri di spunti, di valori. Chi parla male pensa male, ma anche chi ascolta male pensa male, parafrasando Nanni Moretti. Un modo veloce per allargare la forchetta degli analfabeti funzionali, cioè di coloro che non sanno comprendere ciò che leggono, e già pensare che leggano è tanto, forchetta che già oggi comprende, ci dice l’Ocse , il 35% degli italiani. Abbassare l’asticella, questo contribuisce a fare la musica costruita su poche parole. E se l’asticella della comprensione è bassa, è evidente, bassa sarà la possibilità che chi pensa male avrà di non farsi mettere i piedi sopra la testa, parlo della vita di tutti i giorni come dei massimi sistemi. Essere ignoranti ci rende succubi, non sono certo io a scoprirlo, oggi, e mica per caso smantellare l’istruzione è in genere il primo passo di chi vuole tenere sotto il popolo. Questo è a lungo passato per le televisioni private, certamente, a analfabetizzarci a furia di spettacoli beceri, l’illusorietà sbriluccicante di un successo raggiungibile anche in assenza di talenti e di fatica, oggi anche la musica ci sta mettendo del suo, lavorando in maniera ambigua, apparentemente pacifica. Eravamo lì che pensavamo di esserci emancipati, e di colpo ci ritroviamo a ripartire da zero, come se fossimo incappati nella casella sbagliata del Monopoly: vai in prigione senza passare dal via. Lo so, sono partito da una iniziativa solidale importante come il Xmas Project e sono finito a parlare ancora una volta di musica, ma io le parole ho deciso di applicarle in buona parte a questo campo, e come sempre le applico a questo campo parlando di qualcosa di assai più ampio. La libertà che avere un buon vocabolario a disposizione dei nostri ragionamenti ci offre è qualcosa in più del parlare di musica, direi. Quindi, ripeto, non avere a disposizione le giuste parole è un po’ come finire in prigione, ogni parola in meno che abbiamo a disposizione ci toglie un pezzetto di libertà. Quindi diamo un nostro piccolo aiuto a quelle sette neo-sarte di Kampala a costruirsi un futuro col proprio mestiere, e già che ci siamo salviamoci e per salvarci salviamo le parole.