È un bene che Lars Von Trier abbia esordito nel 1977 e non nel 2021, altrimenti saremmo stati costretti a riesumare Orianna Fallaci e scrivere una lettera a un bambino mai nato.
La cinematografia del regista danese è l’esempio vivente di ciò che Aki Kaurismaki disse una volta della sala cinematografica: “L’unico luogo in cui un essere umano possa dirsi ancora libero”.
Eppure, nell’epoca della banda larga, dell’attivismo da Instagram stories, pare una sorta di miracolo l’idea che il prossimo anno - sempre che non ci uccida una nuova pandemia - possa uscire The Kingdom Exodus, seguito della mini-serie The Kingdom, nonché pietra miliare degli anni ‘90 dove già Twin Peaks aveva iniziato a scardinare l’idea che avevamo di piccolo schermo. In un presente distopico in cui sarebbe interessante, per fomentare la follia, chiedere a ogni persona una quota di minoranze nel proprio cerchio di relazioni interpersonali - su falsariga delle nuove regole dell’Academy – l’atteggiamento da persona non grata del regista di Melancholia, potrebbe avere il potere deflagrante di un mini-cicciolo stretto nel proprio ombelico.
Perché La casa di Jack ha portato una parte del pubblico di Cannes a disertare la visione? Negli ultimi vent’anni abbiamo subito il carosello di orrori tra televisione e internet: i video messaggi di Bin Laden, le esecuzioni di Al Qaeda, Nassiriya, la morte di Fabrizio Quattrocchi, la scuola Diaz, il revenge porn and so on, ciò nonostante il nostro sistema nervoso è cosi deformato da esperire ciò che vediamo sullo schermo, qualsiasi schermo, più vero del reale.
Per Lars Von Trier l’arte non ha nulla a che fare con la morale (possono esserci opere pedagogiche che è ben diverso) e qualsiasi atteggiamento censorio non è che un ulteriore grado di separazione tra lo stato di natura e l’uomo civile. Seguendo un atteggiamento moraleggiante non staremo corrompendo la nostra natura? Per il danese solo l’arte è l’utero capace di contenere la violenza, almeno la sua, e farne qualcosa di bello e non per forza buono: le 46 opere che ha messo al mondo.
Von Trier è sempre stato un antropologo, un ricercatore dell’incubo, un rabdomante dell’errore umano: da Europa al delizioso Il Grande Capo, passando per la trilogia - incompiuta – americana dove spicca Dogville. Violenza che viene perpetrata in diversi modi e la grandezza di Dogville sta anche in questo, benché si possa definire l’ultimo film che, in parte, rispecchia i punti del Dogma 95 creato da lui e dal collega Thomas Vinterberg.
L’accelerazionismo del capitalismo di cui si parla tanto negli ultimi anni, nelle rispettive bolle dell’intellighenzia social, era già stata ampiamente descritta nel tragico destino della cittadina di Dogville che, tramite le sue azioni, finisce per autodistruggersi. Così come la figura brutalizzata più e più volte della donna che trova, forse, una catarsi solo nel discusso Nymphomaniac. È un regista che ama le donne, in modo molto personale le sue protagoniste non sono le bionde di Hitchcock, eppure nelle figure femminili che sceglie di raccontare c’è sempre una tragica lucidità riuscendo a non distorcere nulla in nome del politicamente corretto o di un reazionario maschilismo becero. A Lars Von Trier gli si può recriminare di tutto (l’impossibilità di lavorare sul set con lui, come uno Stanley Kubrick sotto anfetamine), ma non che non ci sia una cura maniacale all’autoanalisi, a un triste eppure ammirevole modo di leccarsi le ferite, di capirle e di non infliggere volontariamente dolore agli altri, e il tutto avviene attraverso il cinema e a i suoi protagonisti. Nel personaggio di Joe (Charlotte Gainsbourg) troviamo il perfetto contraltare di Jack (Matt Dillon), il femminino e il mascolino che creano il mondo: Joe attraverso l’uso del suo corpo e del sesso, Jack colonizzando brutalmente i corpi altrui nella sua natura di serial killer (e anche qui ci sarebbe molto da dire sull’atteggiamento imperialista che applichiamo ogni giorno sugli altri).
A 65 anni, il 30 aprile, confido che Lars Von Trier riesca a ritrovare un’unità, che il mascolino e il femminino da lui descritti tornino a essere uno, e che continui, sperando non torni un nuovo codice Hays, a indicarci attraverso i film il dirupo - alcuni lo chiamerebbero semplicemente il futuro- verso cui ci stiamo dirigendo a tutta velocità a occhi bendati. Non è forse questo il compito dell’artista?