Una statua che rappresenta una donna. Una statua fatta di tubi e neon, vagamente nello stile dei Mutoids, arte che deriva dal post industriale, e che in qualche modo evoca qualcosa di primordiale, primitivo, ancestrale. Una donna del futuro, quindi, che è però anche un richiamo alla grande madre Terra, credo, un futuribile che si rifà al tribale. È questa immagine che campeggia al centro della scena. Una scena buia, illuminata di volta in volta dei colori che le canzoni richiamano, il verde, spesso, il blu, il rosso.
La scena, per altro, è occupata da un numero incredibilmente alto di musicisti, nove, dieci, se ci mettiamo anche il titolare dello show, alcuni dei quali, penso alle tre coriste, o al polistrumentista Simone Alessandrini, a passare abilmente dai fiati alle percussioni, passando per gli strumenti a corde, una decina in tutto quelli suonati, si alternano tra dimostrando una duttilità davvero unica, le percussioni e i tamburi a farla da padrona.
Perché il tour di Mannarino, è di lui che stiamo parlando, i titoli hanno appunto il senso di rendere chiaro di chi si parla anche senza doverlo necessariamente nominare nella prima riga, regoletta SEO piuttosto banalotta e cringe, il tour di Mannarino che ha toccato Milano come prima reale tappa in giro per l’Italia, dopo l’esordio abruzzese, è incentrato molto sulle ritmiche, sui tamburi, appunto, e sulla figura della donna, presente per un terzo della band, attraverso le tre coriste, a breve parlerò anche di questo, è evocate a più riprese, si parli di persone fisiche o d’ideali.
Del resto Mannarino aveva affrontato il tutto nel suo ultimo album, “V”, nato sotto la pandemia, quindi in isolamento coatto, ma un isolamento anomalo, apolide, in giro per il mondo, quella volontà di speranza, di vitalità, che proprio nella donna trovava la sua incarnazione e idealizzazione. Concetti ben espressi nei suoni e nella scrittura, che però diventano anche altro proprio in virtù di questi due anni passati sotto scacco, una frenesia anche da parte del pubblico raramente se non mai vista a Milano, il Fabrique il luogo del crimine, una voglia di ripartenza che esula il concetto stesso di ripartenza per farsi scossa, scintilla, defibrillazione. Su tutto, poi, e questo è un discorso che partiva assai da più lontano, la voglia di far veicolare alle proprie canzoni, tribali, pagane, paniche, un messaggio universale di fratellanza, suoni del sud del mondo che si mescolano con una cifra romana e romanesca dando vita a un patchanka particolarmente originale, popolare e colto, mentale e fisico. Un concerto che davvero qualcosa di pulsante, liberatorio, come uno di quei riti sciamanici nei quali si balla, e la gente ha ballato ininterrottamente, per lasciare che certe energie negative abbandonino il nostro corpo, penso al morso della taranta, anche se niente di più lontano di certa moda che ormai accompagna quella figura è stato presente ieri su quel palco e tra quella platea. Un grande concerto di un grande artista, che ha saputo evolversi, rinnovare la propria scrittura, fare ricerca, nonostante il periodo poco adatto al guardarsi intorno, creare un suono e adattarlo al proprio stile, senza snaturarsi mai ma divenendo altro, come un serpente che cambia pelle. Non fossi l’uomo di mezza età che sono, e non mi fossi del tutto disabituato a stare in mezzo alla gente, avrei passato anche io due ore a ballare, magari scalzo, non l’ho fatto, ma dentro mi muovevo come un ossesso, sia messo agli atti.
Un concerto di tamburi, dicevo, e femminile. Prima dell’inizio, parlo di me ma tanto ci siete abituati, ho potuto abbracciare dopo qualche tempo, l’ultima volta c’eravamo visti a ottobre al Premio Bianca D’Aponte, dove accompagnava lo stesso Mannarino, al suo ritorno sulle scene vero e proprio dopo oltre due anni, emozionatissimo, Lavinia Mancusi, che da sempre è una delle sue coriste e musiciste.
Ho più volte scritto di lei, pur avendola conosciuta solo nel 2020, in quell’Attico Monina che è stato per me l’ultimo evento fatto per quasi due anni. Ne ho scritto proprio dopo aver assistito a un concerto di Mannarino agli Arcimboldi, colpito come ero rimasto dalla sua voce e dalla sua immensa presenza scenica, ne ho scritto quando ho deciso di provare a endorsare la sua presenza tra i semifinalisti di Musicultura, tirando in mezzo il presentatore Enrico Ruggeri (ho già raccontato questa storia più volte, invitavo Enrico a vestirsi da donna, visto il nostro comune amore per i New York Dolls, e Lavinia a presentarsi sul palco con uno strap-on, vista la totale assenza di donne nel cast, a parte lei, col risultato che Enrico pubblicherà sui social una foto con Lavinia, lui con indosso una t-shirt della band americana), ne ho scritto qui e là e poi, recentemente, quando ha prestato la sua voce, una delle più belle del nostro panorama musicale, al brano di Giuliano Gabriele "È meridionale", uscito sotto il marchio Officine Meridionali Orchestra. Quello che mi viene da dire, dopo averla sentita e vista, in buona compagnia di Simona Sciacca e Gioia Persichetti, è che Mannarino ha avuto un ottimo fiuto a prenderla nella sua band, e Dio gli renda merito di darle spazio nei suoi show, lì a cantare e muoversi tra chitarre e tamburi, ma proprio in virtù di quell’inneggiare alla donna ancestrale che non potrà che tornare a essere centrale anche in un mondo futuro, in connessione con gli elementi della Terra, sarebbe davvero bello se lei, Lavinia Mancusi, avesse modo di mettersi a sua volta in evidenza per la grande artista che è, mi ripeto, una delle più belle voci del nostro panorama musicale tutto, antica e contemporanea al tempo stesso, eterea e carnalissima. Almeno potrò finalmente dedicarle lo spazio che si merita, e non sarò costretto a parlare di lei andando a aprire parentesi dentro pezzi che parlano (anche) d’altro. In un clima di ripartenze e di buoni propositi ecco il mio, qualche discografico all’ascolto si faccia sotto, garantisco io per lei, non bastasse Mannarino.