Da pochissimi giorni, su YouTube, c’è anche “Bomberz”. E sulle piattaforme digitali/streaming, come in alcuni selezionati negozi fisici, c’è “Didattica”. Singolo e album delle Zetas, dritte dalle periferie di Salerno (zona est della città, i quartieri di Pastena e Sant’Eustachio). Le due ragazze (Miriam, 26 anni, e Anna, 22; oppure Miriade e Annarella, per utilizzare i nomi d’arte) emanano gioventù a ogni rima, ma il progetto Zetas – in cui trovate l’estetica old school rintracciabile nel video di “Bomberz”, così odorante di “Guerrieri della notte”, ma anche le produzioni stratificate e creative di Tonico 70 – non è frutto di sola esuberanza. Affatto. Teniamo conto che a pubblicare il loro primo disco è stata Four Flies, etichetta romana specializzata in colonne sonore e library music d’epoca, molto attenta a frugare nei meandri più reconditi della musica italiana ma anche sensibile alle novità. Ragazzi ascoltatemi – diceva la speaker radiofonica di “Warriors” prima di lanciare “Nowhere to run” –, messaggio per i supermuscoli che vivono in città, per tutti quelli che hanno le orecchie aperte e sono pronti all’azione: le Zetas fanno sul serio. L’ultima parte l’abbiamo aggiunta noi, ma non ci stupiremmo se oggi uno speaker di una radio di provincia introducesse le due ragazze con simile solennità.
Siete amiche storiche o “amiche di rap”?
Ci conosciamo da tempo, ma è stato il rap a unirci. Ci siamo davvero incontrate nel 2019 a The Square, il laboratorio di rap che abbiamo frequentato. The Square è uno spazio dove si riuniscono tanti ragazzi per imparare, guidati da Tonico 70, l’arte della scrittura rap. Noi siamo nate in questo spazio, tra breakdance, freestyle, fumetti, videomaking. Un progetto tutto salernitano in cui si respira autentico hip hop.
Con Tonico 70 è nato un rapporto importante.
Sì, ha creduto in noi. Ci ha prodotto, ha curato tutte le basi del disco ed è anche il nostro manager. Sempre lui ha portato nel disco anche alcuni musicisti importanti, tipo Peppe Maiellano dei Banda Maje.
Un esordio, il vostro, che nasce anche a scuola. “Didattica”, quindi. Ci sta…
“Didattica” perché noi vediamo il rap come una scuola. Abbiamo iniziato a fare rap con foglio e biro, sulla strada. Bisogna riportare l’attenzione sull’apprendimento, l’esercizio, l’allenamento, tutto ciò che ti costruisce e fortifica quando affronti una disciplina, una materia, uno sport. La crescita è figlia della didattica. Non c’è rap senza scuola. Concetto molto lontano dal mainstream contemporaneo, che prova a convincerti del contrario: sei carino/a, fai visualizzazioni, crea un po’ di hype e il gioco è fatto.
Quanto è diffusa, la vostra idea di rap, fra i giovani che ogni giorno incrociate?
Più di quanto si pensi. A svezzarci sono state figure nate nella vecchia scuola del rap italiano, nell’underground, ma sono tanti i ragazzi che oggi avvertono il bisogno di collegare i loro suoni – quelli più recenti, se vogliamo anche di moda – alle radici. Hanno fame di contaminazione. Le nuove generazioni soffrono la mancanza di concetto e di palpabilità nelle strofe. Non dimentichiamo che chi ascolta una canzone spesso cerca sé stesso in quella canzone. Come è possibile trovare sé stessi in brani che parlano sempre di mafie, gang, spari e putta*e?
“Mafie, gang, spari e putta*e”. Potrebbe essere un buon titolo per l’esordio di un wannabe gangsta. Voi cosa contrapponete a questo set abbastanza trito di riferimenti?
Noi raccontiamo la vita di periferia, la vita quotidiana, la difficoltà di crescere e vivere. In “Solite storie” abbiamo creato un dialogo fra chi è schiavo della routine, chi – spettatore della propria vita – si rassegna a pensare che tanto il mondo è sempre girato così, e uno spirito rivoluzionario che vuole cambiare la propria vita. Tutte le tracce di “Didattica”, comunque, partono dalla realtà di una periferia del sud. È il nostro punto di vista sulla vita. Nel tentativo che la nostra esperienza possa fare sentire tutti partecipi: chi sgobba, chi studia, chi campa di rendita, chi non fa nulla.
La periferia. Il nuovo eden dei rapper? Lo chiedo perché un tempo il rap raccontava le periferie, oggi le glorifica. Chi non le conosce affatto ci vorrebbe vivere dentro, come in un film. L’altro giorno, in pieno centro di Milano, un ragazzo griffatissimo vestiva una felpa nera con scritto sopra “banlieu”. “L’odio” di Kassovitz sotto il Duomo di Milano? Anche no, dai…
Tutta emulazione. La periferia come teatro “appetibile”. Per noi essere della periferia non è un vanto, è solo la nostra realtà. Una realtà spesso difficile. I sogni, nei quartieri da cui proveniamo, faticano a prendere vita. È dura. La periferia “chic” invece è una moda. Rondo da Sosa e Baby Gang, per dire, sono molto persuasivi nel proporsi come modelli. Soprattutto perché si rivolgono a ragazzini di 12/13 anni che non conoscono affatto le realtà a cui alludono e che, talvolta, promuovono. Sentirsi di strada, per chi li ascolta, fa figo. Il ragazzino fa un post in cui li imita e fa il pieno di like. Però il rap vero distingue molto bene fra realtà e finizione, fra sostanza ed estetica. Ed è una forma di riscatto ed emanicipazione, non dimentichiamolo.
Radici a parte, con quale hip hop siete cresciute?
Siamo cresciute con Mtv. Col rap degli anni ’90. Poi Club Dogo, Fabri Fibra, Marracash. Ma anche DJ Shocca, Cor Veleno, Neffa, Co’ Sang.
Stringiamo l’obiettivo sul sud. Su Napoli. Come avete vissuto il fenomeno di “Mari fuori”?
È molto romanzato, lontano dalla nostra realtà. Funziona, va ammesso. Il rapporto con la legge è abbastanza fantasioso, però le storie hanno un senso. Le relazioni fra i ragazzi sono fitte di piccoli messaggi – quasi dettagli – preziosi. Ne emerge uno spaccato che non è certo una fotografia del reale, ma che veicola contenuti anche alti. Pensiamo al concetto di “pentimento”.
E Liberato? Come vivete, da ragazze, le sue rime?
Ci piace. Ha mescolato il dialetto con lo slang americano, una cosa molto hip hop. È interessante anche come descrive le strade di Napoli. Ecco, in Liberato c’è una vita, una vivacità, che è più reale di “Mare fuori”. Liberato mette allegria perché alla fin fine, di Napoli, ne parla sempre bene. E tralasciamo l’aspetto mediatico, il “mistero” su chi sia Liberato. Quella era hype, ma il progetto c’è.
Arriviamo a Geolier.
Forte! (all’unisono, nda). Cento percento hip hop.
E di questa strana confluenza fra trap e neomelodici? Una deriva impensabile, agli albori della trap.
Mescolare le cose è sempre bello, sebbene troviamo più interessante l’unione fra canzone classica napoletana (che non è il melodico) e l’hip hop. Il rap è storicamente terreno di contaminazioni, fin dai tempi di Run DMC e Aerosmith. Poi è chiaro, se ascolti cento brani trap-neomelodici tutti uguali allora c’è un problema. Un problema di originalità. È inutile andare dietro a Vale Lambo e Lele Blade. Loro ci sono già. Chi arriva dopo deve per forza introdurre qualcosa di inedito, altrimenti parliamo di fotocopie senza identità. Anche perché se ascolto quei cento brani di prima, tutti simili, indovina un po’ quale mi colpirà di più, alla fine? Quello più originale, quello che si eleva oltre lo standard.
Il mondo Zetas è un mondo denso, affollato. Ma quale messaggio vorreste che si ergesse sopra tutti gli altri?
La trasparenza è la chiave. Cerchiamo di essere trasparenti e veri. Chi è vero, in un certo senso, non sbaglia mai. Noi siamo ciò che siamo e per questo non scriveremo mai qualcosa che non siamo in grado di difendere. L’hip hop non muore mai, è anche Storia. Ed è ancora il modo migliore per essere veri, per organizzare qualcosa di diverso nei quartieri. Dai tempi dei nostri inizi, oggi ci sono più ragazze che fanno rap. Una crescita che è nata dal confronto continuo, dall’aggregazione. Dall’hip hop.
Quindi l’hip hop non è stato offuscato dal monopolio trap?
L’hip hop sta di nuovo tornando. Little Simz è totalmente rap. L’ultimo di Guè, con Bassi Maestro, è una masterclass rap. Il gusto per il campionamento, il gusto di frugare nella Storia, il gusto per la componente funk sono anche il nostro gusto. E noi, bada, non siamo e non suoniamo vecchie, però siamo consapevoli di ciò che ci ha preceduto. E vogliamo continuare a sperimentare. Tanto.