Il concetto filosofico che deve passare è questo: è possibile tirar su il plastico della felicità, congegnarla, pur non essendo felici. Possiamo disegnarla, darle una forma. Chiamarla felicità, e in sordina, non esserlo. Così Luke Marani, come i suoi colleghi (migliori o peggiori non saprei), vende possibilità, entra nel mercato dell’ecommerce. Forbes lo premia tra i dieci imprenditori italiani del pianeta da tenere d’occhio. Classe 2000. Voglio dire o sei un genio a 24 anni o non lo sarai mai. C’è il fattore ics. O ce l’hai o buona fortuna. Bisogna poi capire dove indirizzarlo, eticamente e teologicamente, dovremmo lanciarlo verso la salvezza, salvezza comunque, salvezza di qualcosa. Ma la storia di Luke Marani mi piace, perché ha una faccia bella, pulita. E chiedo perdono per l’enorme pregiudizio. Quanto conti la bellezza per scagionare, nobilitare, edificare? Non lo so, ci penso. Puoi ad esempio essere un millantatore e presentarti nelle fattezze di un ragazzo perbene? Dei guru del web non possiamo dire molto, esser sicuri che siano attendibili o truffatori, giudicate da soli; giovanissimi necessariamente, perché sono i nativi del tempo fluido, imprendibile, dei software, delle community e delle idee che sorgive si affidano all’estro futuristico spesso imberbe, nuove come l’araba fenice che una volta serviva a un mestiere, oggi a un altro.
Forse non è così urgente stabilire se ci stiano vendono la fontana di Trevi o lo zerbino della signora di fronte. Lo sanno fare, hanno ragionato su come realizzare il trompe l’oeil. Sembra la fontana di Trevi, lo dice tanto bene, e non ti accorgi che invece è solo uno zerbino. Premiamolo per l’arditezza e il talento, nel gabbare con eleganza. O magari dice semplicemente una specie di verosimiglianza. In un video su Youtube, Luke Marani racconta efficacemente la sua ascesa, studente universitario squattrinato, famiglia oppressa dai debiti, adolescenza trascorsa in una casa di periferia. Lo racconta mentre beve un cocktail di proteine nella sua abitazione, al sessantaquattresimo piano di un grattacielo a Dubai. Non è esattamente la felicità. Eppure la imita, la tradisce, restituendole connotati arbitrari e in fondo approvati dalla parzialità di un gusto collettivo. Sembrano deduzioni molto ovvie, eppure sono inesplicabili. La felicità comparata a un terrazzo sul mare degli Emirati Arabi, rifrange su vetrate dove riflette il sole lattiginoso che pare emanare raggi esclusivi, una placenta poco brillante, una luce inquieta e flebile sul finale, quasi stanca, come a ribadire: la felicità, cioè la sua ricerca testarda e insopprimibile, tutto sommato sfinisce.
Dunque non sappiamo se credere a Luke Marani, giusto? Nell’orbita dei fuffa guru, lui è il più credibile? Non è importante, per me, non lo è. Stabiliamo che dietro ci sia segretamente una ragione migliore, questa sì, non le manovre dedite a un guadagno facile; il motivo è la felicità. Sì, l’ombra talvolta che ci perseguita, il ricordo remoto, l’anelito ultramondano. Il calco. La felicità. La ricordiamo. E senza sapere davvero, cerchiamo di riformularla, imitarla, congetturarla, percorrerne il confine imaginario. E non trovarla. Dov’è la felicità? Se noi ai fuffa guru e agli onesti, ai nativi del tempo due punto zero, agli arrampicatori digitali, concedessimo una chance innocente. Ecco. Non lo sanno, ma anche loro desiderano il sogno di un uomo comune, essere felici. Essere amati. Non è tutto più bello, tutto perdonabile? Luke dice: la cosa bella dell’esser ricco è godere dei servizi. Tutto quel che vuoi. E certo. E come no. Con o senza brillio negli occhi. Nella luce stanca, nel dinamico flebile che produce. Che deve produrre. La felicità.