La new è: ce la facciamo a “vendere eticamente” la nostra conoscenza? Mik Cosentino, docet. Chi è? Vi domanderete. Secondo passaggio: ma checcefrega, rifletterete quindi. Esattamente. Mik Cosentino non è un fuffaguru. Neologismo adoperato e forse inventato da lui medesimo per metterci in guardia. Non tutti fanno infomarketing o addestrano heroes mastermind. Ma cos’è? Il linguaggio degli abitanti dell’iperuranio, my opinion. Un qualcosa insomma. Leggendo bene nella biografia, Mik è stato un nuotatore della nazionale. Oggi è un motivatore. Noi preferiamo usare il linguaggio dell’Accademia della Crusca, ne vien fuori un duello, nella migliore delle ipotesi non rimediamo un accidente da capire. Qualcuno ve lo ha chiesto? Capire, dico. Cioè i motivatori io li immagino con un pollicione enorme sempre alzato. Stentoreo. Fisso. Non so, si alzano la mattina per verificare giudiziosamente che le erezioni sono due, una è quella del pollicione, in alto a destra, prego.
Edoardo Ferrario ha il suo Mik Cosentino, un reel con la Gialappa’s, che poi è consacrare una celebrità. In fondo non è così parodistico. Cosa fai Mik? Hai davvero deciso di insegnarci tutto quello che hai imparato “dopo un anno di scrollo su Instagram”? Infoconoscenze. Info. Info in quanto prefisso dell’universalità. Trasmettere informazioni. De che? Di quello che te pare. Con quale competenza? Le domande socratiche tenetele in saccoccia. Ti può insegnare ogni cosa. Ad esempio: hai un neonato in casa? Piange? Non dargli un cellulare. A un neonato? Un cellulare? Facciamo che è un bambino di qualche anno. Non dargli un cellulare in mano per calmarlo. Te lo dice Mik. Te lo spiega in un video di info. Info universali. E sulle info, Mik, pollicione alzato (ma questa è la mia trasfigurazione sentimentale), ha messo su un’azienda milionaria. Ma nooo. Sì sì. Quando sento parlare di “business” mi intristisco. Se aggiungiamo “digitale” mi sento piovere dentro asteroidi o un fungo atomico sul deserto dell’Arizona. In un secondo sono di nuovo la fallimentare e sfigatella adolescente che guarda commedie americane delicate come il rutto di un worker della middle-class di Kansas City con una birra davanti e il programma di Powerball, scandito da una voce sgangherata di yeah, e arrotata di slang. Ce la puoi fare. Chi se lo ricorda il ricatto morale anni ’80 o giù di lì. Una spada che tagliava a pezzettini il balbettio di tutti gli ebeti. Ce ne fosse stato uno che diventava vincente, a sentirli. Chi erano?
Bah. Motivatori. Santoni. Gente che tu dici: ma questo che vole. E invece avevano scoperchiato il segreto della vita. Hanno visto come funziona prima degli altri, noi avevamo la manovella inceppata. Loro no. Perciò fai i soldi, ancor meglio: produci capitale. Business. Soldini tintinnare, simili a escrementi sferici di caprette. Insondabile tristezza alla parola: velocità. Muoviti. Dai. Datti una mossa. È il sottoregistro. Insaccati eletti, con colli inamidati e l’orologio sopra il polsino. Un tempo era così. Per le donne, stronze come gli uomini, bastava un tailleur e i collant color carne, che ti strapperesti a morsi per il prurito e l’abominio cromatico. Collant di nylon. Oggi mi capita raramente di vederne, se mi capita penso subito a Melanie Griffith sul set di “Una donna in carriera”. Ed è subito morte morale. Gli americani ci insegnavano a fottere. A essere nella sostanza fighi, spacconi, come sanno esserlo solo loro: sceriffi. Sparare. Metaforicamente anche. Sparare come alla fine di un inseguimento in un film di azione. Ma la tristezza. L’angoscia cosmica. E invece c’è Mik, pollicione alzato.