Pensandoci bene, Guido Crosetto, dinamico ministro della Difesa, che talvolta scorgiamo in mimetica per ragioni di cortesia istituzionale verso le forze armate, postura da Buddha, appunto, ministeriale, scartabellando nell’immaginario da porta carraia, ufficio maggiorità e contrappello mattutino, a suo modo potrebbe perfino altrettanto ricordare una creatura radiofonica di “Alto gradimento”, il colonnello Buttiglione, pervenuto addirittura al cinema con il volto dell’attore francese Jacques Dufilho, che avrebbe anni dopo interpretato anche Philippe Pétain, maresciallo collaborazionista con i nazisti a Vichy; così per stazza, fisica imponenza. Quanto alle parole allarmate di Crosetto, immaginiamo suggerite dai focolai di guerra a noi sempre più prossimi, quasi dirimpettai, eccole: “Abbiamo trasformato le forze armate con l’idea che non ci fosse più bisogno di difendere il nostro territorio e che la pace fosse una conquista di fatto irreversibile, in questo quadro, al massimo partecipano a missioni di pace, senza arrivare a scontri veri e propri. Ora i recinti sono stati abbattuti, non ci sono più regole. C’è una guerra commerciale in atto che vuole alterare le regole globali. È una guerra che si innesca su un’altra guerra”. Traduzione approssimativa e insieme del tutto evidente: serviranno i riservisti, riapriremo le caserme, probabilmente anche le molte dismesse negli ultimi decenni. E qui il pensiero, scorrendo il carosello della memoria patria delle furerie, tra cachi e grigioverde, riporta ai giorni in cui era ancora obbligatoria la leva militare: dodici mesi per l’Esercito, diciotto per la Marina; il “cartolino” che d’improvviso appare nella buca, e allora al ragazzo inerme non resta che raggiungere il corpo d’appartenenza cui si è assegnati, talvolta coralmente accompagnati, tra lacrime materne e la fidanzata pronta a dimenticarlo già dal mattino del giorno dopo che l'abbiano implotonato, parlo sempre degli anni di Buttiglione, dai brani dei Santo California: “Rivedo ancora il treno allontanarsi e tu che asciughi quella lacrima, tornerò, com'è possibile un anno senza te…”. Anche qui il dato autobiografico corre nuovamente incontro. Su tutto, il ricordo della caserma “Piave” di Orvieto, 3° Battaglione Granatieri Guardie, motto: “A me le Guardie!”
Oh, caserma ormai dismessa: la sua piazza d’armi, tempo fa, mi è apparsa trasformata in deposito comunale, l’arancione dei bus dove un tempo i camion per la truppa; in stato d’abbandono anche il monumento che rievocava le battaglie, i sacrifizi affrontati da noi granatieri, magari gli stessi che a Porta San Paolo, il 10 settembre del 1943, cercarono di impedire l’avanzata dei paracadutisti tedeschi; segnando l’inizio così della guerra di Liberazione, tra gli eroi di quei giorni anche il capitano Francesco Vannetti Donnini del 4º Reggimento “Genova Cavalleria”, medaglia d’oro, zio di Alberto Vannetti, un amico artista molto bravo, che orgogliosamente ne custodisce ancora adesso in salotto il ritratto in alta uniforme ed elmo “Minerva” sul capo. La “Piave” è stessa caserma narrata da Pier Vittorio Tondelli in modo struggente in Pao Pao, romanzo, diario, memoriale, erbario, cronaca di amori tra ragazzi gay, tra il Pozzo di San Patrizio e le camerate umide poste lì sulla Rocca, prima che la storia si trasferisca alla “Macao” di Roma, presidio militare romano prossimo a Castro Pretorio. Ora che ci penso, ai miei tempi si vociferava che a comandare la nostra caserma vi fosse un colonnello degradato perché già iscritto alla P2, così come il responsabile della mia compagnia, degradato a sua volta, ancora voci da camerata, pare fosse già appartenente all’organizzazione neofascista, Rosa dei Venti; va detto però che era un’amabile persona, il nostro tenente: e che struggimento scorgere alle pareti dell’ufficio le fotografie in bianco e nero della sua prima nomina proprio a tenente, scattate almeno venticinque anni prima. Ricordo ancora l’inno, la marcia del corpo, tra pifferi e tamburi: “Siamo granatier, superbi e fier, orgoglio della stirpe, poema di valor…”
Qualora il ministro Guido Crosetto dovesse riuscire nell’intento di riaprire le caserme per accogliere i riservisti, nelle edicole dovrebbero necessariamente tornare a fiorire i giornaletti delle edizioni “Squalo”, pronti a dare ristoro perfino onanistico, insieme alle foto di Cicciolina e i numeri di “Big”, al soldato già oberato dall’ossessiva pratica del “cubo” imposta per dare dignità ai letti. Innanzitutto “Il Tromba”, dove il protagonista aveva la faccia di Adriano Celentano, infatti di cognome faceva Lentano, e risiedeva appunto in caserma. Cui aggiungere “Zora la vampira”, “Wallestein il Mostro”, “Sukia”, “Hessa”, quest’ultima una provetta por*o-torturatrice del Reich millenario armata di frusta. Se è concessa un ulteriore suggerimento letterario, magari da far reperire proprio accanto al “cubo” o direttamente in piazza d’armi, così da favorire, appunto, un’alfabetizzazione tematica militare complessiva, anche riferite al tema dell'assurdo, presso i “richiamati”, sarà il caso affrontare la lettura di Filologia dell’anfibio, un dizionario narrativo illustrato che dobbiamo all’estro di Michele Mari, tra le voci riportate il gesto che vede protagonista la catenella utile a custodire la chiave dell’armadietto: d’abitudine, ogni residente di camerata, agitando il polso, ha modo di riavvolgerla sul dito indice, dapprima in senso orario, poi antiorario. Accludo foto di me già in forza presso il Comando Truppe Alleate del Sud Europa, Nato, a Bagnoli, Napoli, corpo di assegnazione definitiva, scattata nei giorni in cui Drupi cantava “Regalami un sorriso”, anche quel complesso nel frattempo dismesso.