Esattamente vent’anni fa. Stai tornando a casa con lo zaino in spalla. Una pioviggine leggera. Vorresti continuasse a scendere perché ti immalinconisce. E tu di quella malinconia ne hai bisogno, hai brama di sublime. Ti saresti trattenuto in giro, come ogni sera, ma un tuo amico ti ha detto che oggi è uscito il disco dell’anno. «Non l’hai ancora ascoltato?» Ti ha chiesto meravigliato. «Che disco?» Hai voluto sapere. «Roccia Music,» ti ha risposto prontamente. Eri convinto sarebbe uscito tra una settimana. Come hai potuto aver avuto una simile svista? Mentre la pioggia continua a scendere acceleri il passo. Se aumenta rischi di infradiciarti. Una volta arrivato in stazione sali sul treno, ti siedi e guardi la città farsi sempre più uggiosa. Il sole è calato quasi del tutto. Metti in cuffia Mi Fist, per iniziare ad addentrarti nelle atmosfere che troverai in Roccia Music. Milano è lontana, dall’altra parte dell’Italia, e tu, che sei solo un povero provinciale, ti sembra di vederla, quella città che è già l’epicentro della scena rap italiana. Non puoi sapere che, vent’anni dopo, quel genere che da ragazzino ascoltavi solo tu e altri quattro sfigati e che sta iniziando a venir apprezzato da tanti, diventerà il primo genere in Italia.

È il 2005. Fabio Bartolo Rizzo è un giovane rapper siciliano ma cresciuto a Milano, amico di Guè, all’epoca Guercio. Studia lettere, o forse studiava. Te l’ha detto qualcuno, ma a te non sembra fare l’università, impegnato com’è con la musica e con le storie di strada in cui è totalmente immerso. Però l’idea che sia entrato almeno una volta in un ateneo ti esalta, è un contrasto che ti è sempre piaciuto, strada e cultura, rap e poesia. Hai letto che anche Guercio studiava all’università, filosofia, ma ora ha lasciato gli studi. Forse la musica a quella gente sta girando proprio bene. Fabio è uno che orbitava attorno alle Sacre Scuole. Anche lui, come il Corvo d’Argento (Dargen N.d.R.), aveva uno streetname legato a certi manga e anime della sua infanzia, si faceva chiamare Juza delle Nuvole, come un personaggio di Ken il Guerriero. Ma quel nome suonava troppo anni Novanta, troppo Wu-Tang Clan, e oggi ci sono altri sottogeneri. Negli Stati Uniti spopolano il crunk e la dirty south, artisti come Lil John, Lil Scrappy, Lil Wayne, una marea di Lil e anche una marea di Young. Poi c’è la Cash Money, l’etichetta di Birdman, realtà più nuove, nomi più freschi. La scelta di Juza delle Nuvole è comprensibile. Ha cambiato nome in Marracash. La sua gavetta da rapper non è rintracciabile. Lo conoscono solo coloro che a Milano frequentavano il Muretto in San Babila, chi ha ascoltato attentamente il mixtape PMC VS Club Dogo e chi, come te, ha scaricato Popolare, il suo singolo uscito poco prima e andato talmente bene che ora Marracash, agli occhi dei divoratori di rap, sembra essere già un nome affermato. Non sei l’unico a tornare a casa per metterti in cuffia Roccia Music vol.1. Tanti tuoi coetanei in quel momento stanno facendo lo stesso. Di fronte al tuo impianto Hi-Fi, con la felpa ancora imbevuta di pioggia, ritieni non sia possibile che un lavoro del genere non sia destinato a restare nella storia. E infatti non ti sbagli. Più avanti ne avrai la certezza. Fu così che mi imbattei nel disco in cui era presente Chiedi alla polvere, la traccia migliore, a parer mio, dell’album, e che Marra inserirà tre anni dopo, con un beat diverso, nel suo primo disco in studio. Avevo letto di recente Chiedi alla polvere, il romanzo di John Fante, da cui Marra ha preso il titolo, ma al primo ascolto già mi ero reso conto che la canzone aveva poco a che fare col libro. Era solo un riferimento arguto, dettato più che altro dalla sua forza evocativa e dal fatto che contenesse la parola polvere, immagine che all’interno del brano si fa polisemica, perché indica sia la polvere della miseria, continuamente evocata, sia la polvere da sparo:
Chiedi alla polvere nera
del tamburo di un revolver o quella incolore ma pur vera
che ci avvolge, fra', è la miseria

Non è inoltre da escludere che il titolo rimandi anche alla forma in cui si presenta la sostanza ricavata dalla pianta sudamericana Erythroxylum coca, sebbene non si ci siano riferimenti di questo tipo all’interno del testo, ma solo del disco. Sebbene la citazione fantiana fosse una mera trovata evocativa, mi resi conto fin da sùbito che la dimensione letteraria della canzone era comunque molto forte, e non solo perché le abilità liriche dell’ex Juza delle Nuvole erano notevoli, ma anche perché si parlava di sottoproletariato e disagio sociale in una maniera tipicamente verista. E se qualcuno avesse avuto qualche dubbio, Marracash non gli avrebbe dato il tempo di aprire bocca, perché a un certo punto, in quello che a parer mio è il passaggio più viscerale e nel contempo poetico del brano, sentiamo:
E a mio nonno che in Sicilia ancora spreme la vite nell'orto
Ed a mio padre hanno spremuto la vita dal corpo
Ed al mio sporco, sporco Sud sudicio
A chi ha su-subito e vuole tutto e su-subito
La mia è una genìa di sconfitti
Il fottuto Ciclo dei vinti e finti miti
Per chi fosse a digiuno di letteratura italiana, il Ciclo dei vinti, citato alla fine del passaggio riportato, è l’incompiuto insieme dei romanzi di cui fa parte anche I Malavoglia, e che si poneva l’obiettivo di raccontare tutti gli strati della società. Marracash, siciliano come Verga, e come lui emigrato a Milano, racconta il sottoproletariato, ricollegandosi alla tradizione verista nata poco più di centovent’anni prima, e questa discendenza la esplicita con fierezza. Il riferimento letterario, così efficace e d’impatto, non può lasciare indifferenti, e meriterebbe senza dubbio di venir utilizzato a scopo didattico. Marracash conosceva, e conosce molto bene, non solo il suo conterraneo Verga, ma anche Dostoevskij – che ha più volte definito il suo scrittore preferito – e altri autori che si sono fatti voce della miseria e hanno raccontato quanto sia difficile, talvolta, vivere. Quel giorno di così tanti anni fa, dopo aver ascoltato il disco, mi sono fiondato alla mia libreria. Avevo una copia consunta de I Malavoglia, le pagine ingiallite dal tempo. Lo avevo già letto, tempo prima, ma ricordavo poco. Lo riniziai e a ogni capitolo mi sembrava di non essermi staccato da Marracash. La voce di Verga era la stessa, ed erano gli stessi anche quei personaggi. Il villaggio di pescatori di Aci Trezza si era solo trasformato in quelle «popolari», dove ogni dimenticato da Dio stava «in celle di alveari con i suoi e le sorelle in quaranta metri quadri.» I reietti cantati da Marracash sono gli stessi de I Malavoglia. E in effetti nessuno più di lui, che in quel contesto ci è nato e cresciuto, può raccontare quel mondo, come ci tiene a precisare: «Io ho la stoffa per raccontare. Resto vero, la mia stoffa è di fottuto tessuto sociale.» Un’opera prettamente verista, dunque, Chiedi alla polvere, che narra la realtà e gli strati più bassi del popolo, e che si evolverà più avanti in Briciole, Con i soldi in testa e in gran parte della produzione di Marracash, un artista da rileggere anche in un’ottica letteraria, il quale ci ricorda che nulla nasce da nulla, e che l’arte di qualità, per essere tale, cela sempre un sostrato di valore.
