Quando la mia amica Alessia mi chiede che ne penso di A Complete Unkwown, la risposta, non editata e presentata qui in purezza, sguscia spontaneamente dalle dita: "Che dobbiamo dirci? Il film lo salva Bob Dylan. Nel senso che è un pezzo di entertainment riuscito specialmente se sei fan. A me emoziona, ingenuamente, la ricostruzione del Village, di una Newport, degli anni ‘60 in generale. Le canzoni anche, nonostante lui che le canta (ma poteva andar peggio). E il problema è proprio lui. L’ho visto in lingua originale e non mi ero mai reso conto di quanto mediocre fosse questo attore. Una recitazione barocca, ipersemantizzata (se po' dì?), calcata in maniera ridondante sulla parlata nasale (che però svanisce o quasi nell’unico momento in cui serve, la musica). La combo Timothée Chalamet più ingenuità nella sceneggiatura costruisce un Dylan poeta maledetto che spezza cuori con la sua motocicletta e parla come se avesse una perpetua sinusite. Per me è no. Quando chiameranno Chalamet a fare il film su Timothée Chalamet allora saremo felici, finalmente un ruolo in cui non gli si chiederà di abbandonare sé stesso e la sua mitologia". Alessia mi risponde, laconica: “Severissimo”. Questo livoroso taglio da critica teppistica di cui infarcisco il messaggio niente aggiunge ai tanti articoli che già si leggono sull’ultimo biopic di James Mangould dedicato al bardo del Minnesota, eppure è significativo che ancora in pochi - specialmente tra i compari statunitensi - vogliano ragionare sul fenomeno che si scatena quando viene assoldato il neovirginale ma durissimo emblema della nuova ma già vecchia coolness Gen Z.
Timothée Chalamet. Cha-la-met, luce della nostra vita, fuoco dei nostri lombi. Il suo nome altisonante e palatale ci rincuora: è la grande conferma della coincidenza che ancora vige tra onoma ed ergon, tra il nome e la cosa, che tanto piaceva ai signori con le barbe. Sinuosissimo, giovane, efebico quanto basta a non rovinare il sogno erotico e paracinematografico dei molti, il nostro "Timoteo" si è costruito prima di tutto un’estetica - che è l’arma vincente per sedurre le pudenda progressiste e inaspettatamente conservatrici della nostra contemporaneità - e dopo aver scalato la vetta del cinema in pieno stile hollywoodiano (leggasi sputando su Woody Allen dopo averci fatto un film e rendendosi incapace di qualsivoglia soggettività e autonomia) ha deciso di esser pronto a interpretare il più influente cantautore della storia. Ma la prova si dimostra subito ribaltata: è Bob Dylan che, con un’ottima performance, interpreta magistralmente il nostro Chalamet intento a slinguazzare una Joan Baez ridotta a femminiella pick me girl tra una sgommata in moto e un’epifania creativa. Cito Alessandro Carrera su Doppiozero quando scrivo che nel film Dylan - ma a questo punto il re si è denudato e possiamo scrivere Timothée - non sorride mai: il grande errore di questa prova che vorrebbe imporsi come biopic di livello - come infatti viene recepito negli States - e invece si trasforma in idealizzazione prepuberale sta proprio nella caduta sull’enorme cliché del maledettismo di cui, è giusto iniziare ad accettarlo, non ci libereremo ancora per un centinaio di anni. Osserviamo un Timothée perennemente imbronciato nel pastiche linguistico che vorrebbe suonare come un accento del Midwest (vedetelo in lingua, per piacere) e invece arriva all’orecchio come un esasperato tentativo di rendere la nasalità e non un briciolo dell’ironia che il primo Dylan scatenava nel parlato e nelle canzoni. All’attore avrebbe forse giovato prepararsi con meno interviste e più musica, dare un ascolto in più a Talkin’ John Birch Paranoid Blues e uno sguardo in meno al rotocalco, tutto al fine di poter meglio interiorizzare non una voce, non un accento ma un’intonazione, una dizione “capace di confondere completamente con un vagito o un grugnito il significato letterale di un verso e di conferirgli cento altri riflessi emotivi”, per citare lo scaruffone, che qui credo colga al meglio la gran cosa che è e sarà sempre il canto di Bob Dylan.
Chalamet, leggiamo su Rolling Stone, è stato istruito per cinque anni da "nome di chitarrista che ha insegnato a Maryl Streep" e, possiamo dirlo con un certo orgoglio, ha imparato perfettamente come si suona un re minore in posizione aperta. Ne siamo tutti molto felici. Ancora tuttavia non ci spieghiamo come sia possibile la costruzione di un personalismo così datato su un attore che prima di essere attore interpreta il personaggio di sé stesso. Ma si è sempre fatto così, il cinema è personalismo, inutile l’invettiva, it’s Hollywood, non possiamo permetterci un ennesimo o tempora o mores! in relazione all’ennesima costruzione di una mitologia. E infatti a volte penso che l’unica reazione possibile a un film tutto sommato godibile come A Complete Unknown sia quella di Gabriel, il caro amico gallese che mi ha accompagnato in sala e che a proiezione conclusa, mentre io mi contorcevo nevroticamente sul dettaglio impreciso la voce esasperata l’anacronismo storico e al contempo gli chiedevo cosa ne avesse pensato, mi ha risposto: “It was good, mate”. E non ne ha più parlato per il resto della serata.