“Mi sento anzitutto londinese e poi veneto, italiano, europeo”. Marco Mancassola fa base a Londra – area di Elephant & Castle – dall’ormai lontano 2010. I luoghi, ve ne accorgerete, hanno sempre avuto una certa rilevanza per il suo scrivere. Forse lo abbiamo intervistato proprio per questo. Per capire – ora che il suo terzo libro, “Last Love Parade”, è da poco maggiorenne – perché, nonostante tutto, Londra è ancora casa sua. Per capire quale tipo di viaggio ha intrapreso la narrativa negli ultimi anni. Inevitabilmente, non siamo partiti né dalla natìa Vicenza, né da Torino (dove ha insegnato per la Scuola Holden) e neppure dall’attuale casa londinese. Bensì dall’ultima Love Parade berlinese.
“Last Love Parade” (ultima edizione nel 2022 per Il Saggiatore) ha da poco compiuto diciotto anni. In che stato di salute lo hai trovato quando hai scritto la quarta, e finora ultima, postfazione?
Credo sia ancora attuale. Per paradosso credo che la sua attualità sia legata a quel senso di nostalgia che oggi è diventato un valore collettivo pervasivo. “Last Love Parade” è un testo che nacque già pieno di nostalgia. Il libro parte dalla disco music degli anni ’60, ricostruendo in chiave saggistica la storia della cultura dance e delle corrispondenti svolte sociali. Poi continua seguendo la musica dance fino agli anni ’90, il big bang di mille generi e sottogeneri, l’accelerazione del ritmo; in quel momento la vicenda diventa anche personale, diventa la mia vicenda. Da qui, la scelta di incrociare saggio e romanzo autobiografico. Mentre scrivevo, non mi rendevo ancora conto di cosa mi fosse successo: testimoniare l’esplosione di una potente sottocultura di massa, e la straordinaria coincidenza storica di essere stato giovane proprio in quel momento.
Da qui, dunque, il senso di nostalgia?
Quando ho pubblicato la prima edizione nel 2005, a poco più di trent’anni, c’era la nostalgia per una parabola che mi sembrava ormai discendente. La cultura del clubbing e del rave non era più così di massa, la Love Parade stava finendo male. Era però una nostalgia ancora “normale”, gestibile. Poi, a ogni successiva ripubblicazione del libro, ho constatato che la nostalgia dei lettori aumentava. Sia quella di chi aveva vissuto come me quegli anni, sia quella di chi, troppo giovane per esserci stato, mi scriveva che invidiava la mia esperienza generazionale. Oggi la nostalgia è diventata strutturale. Ci sono parole che segnano lo spirito del tempo: negli anni ’80 c’era “edonismo”, nei ’90 “flessibilità”, a inizio duemila “società liquida”, oggi è il turno di “nostalgia”. E c’è qualcosa di oscuro e minaccioso in questo: una nostalgia che non deriva più da una spinta romantica dolceamara ma è la reazione alla morte del futuro, di ogni vero progresso creativo e sociale.
Tutto finito, quindi?
Sul piano della cultura dance le persone ballano ancora, la musica elettronica continua in tante forme. Ma il grande rito collettivo degli anni Novanta, le migliaia di corpi che condividevano gioiosi lo stesso qui e ora, senza tecnologia invadente e senza troppi apparati di controllo, non tornerà più. E lo stallo della musica elettronica, che da vent’anni non produce nulla di radicalmente nuovo, incarna lo stallo creativo generale dei nostri anni. Penso all’esperimento proposto da Mark Fisher nel suo testo “Spettri della mia vita”: prendiamo un pezzo di musica jungle del 1993, immaginiamo di mandarlo indietro di appena quattro anni e l’effetto che farebbe nel 1989. La gente del 1989 resterebbe sconvolta, sentirebbe qualcosa di ancora impensato, impensabile. Facciamo lo stesso esperimento con un pezzo di oggi, mandiamolo indietro non di quattro ma addirittura di vent’anni: la gente di vent’anni fa noterebbe una produzione tecnicamente più raffinata, certo, qualche novità formale in più, ma non resterebbe sconvolta. Sentirebbe qualcosa di non così diverso da quello che conosce già.
C’è un filo rosso che lega “Last Love Parade” alla Scuola Holden per cui hai insegnato?
Forse questo libro, tra le altre cose, ha segnato la novità dell’incrocio fra saggio, memoir, romanzo autobiografico. Una forma ibrida che negli anni successivi è diventata comune ma che nel 2005 in Italia sembrava ancora qualcosa di esotico. Praticare forme di ricerca e ibridazione nel racconto è senza dubbio qualcosa che ho portato con me quando la Holden mi propose le prime collaborazioni.
Stai continuando a collaborare con loro?
Sì, e con altre scuole e università. In dieci anni posso dire di aver svezzato centinaia di studenti in corsi di vario livello. Di fronte a questo flusso di persone che vogliono scrivere a volte mi è capitato di pensare che ci sia l’urgenza di raccontare la propria storia prima della fine del mondo. Non come sentimento conscio. Ma credo ci sia la percezione di un mondo, per lo meno un mondo come lo abbiamo conosciuto finora, al suo ultimo stadio; e la percezione che io, autore o autrice o aspirante tale, devo sbrigarmi a lasciare una traccia. Eppure penso che la scrittura vera si muova su un altro tempo, la letteratura nonostante tutto deve prendersi il tempo per maturare un testo. L’attuale mercato editoriale sta invece dalla parte dell’urgenza e del panico: trovo tanti libri pubblicati che avrebbero bisogno di più editing, più gestazione. E non parlo solo di scrittori esordienti. Libri buttati fuori prima del tempo.
E le serie tv, che alcuni considerano una forma di letteratura?
La stessa accelerazione del mercato narrativo, esasperata dalle esigenze delle piattaforme. Perché così tanta gente oggi annuncia che si è stancata di Netflix? Fra le serie degli ultimi anni trovi idee interessanti ma scritte con troppa fretta, sviluppate in modo sciatto, automatico.
Anche le scuole di scrittura hanno contribuito a creare questo scenario?
Forse. Il merito delle scuole di scrittura è di offrire uno spazio di condivisione a chi vuole iniziare a raccontare. L’esperienza di condividere un racconto è formativa, terapeutica, vale al di là degli esiti finali, e la guida di un docente valorizza questa funzione. Tuttavia, le scuole di scrittura sono spesso co-responsabili del culto dello storytelling. La categoria dello storytelling viene intesa come performance, raggiungimento di risultati, meccanismo per agganciare – quasi fossero la stessa cosa – consumatori, elettori, follower, lettori. Allo stesso modo c’è il culto della “storia”, parola ormai così stanca e abusata da essere inservibile. Narrare diventa un processo scientifico, tecnico, e allora non stupiamoci se poi verrà fatto dalle intelligenze artificiali. La letteratura è altro, è uno stato, non deve per forza avere uno scopo. Sa essere splendidamente nichilista o indifferente. È un riflesso dell’esperienza umana: esiste fino a quando ha qualcosa di non calcolabile, non del tutto codificabile.
Stai pensando all’esempio di qualche mostro sacro della letteratura? Apprezzavi Cormac McCarthy?
Dei “grandi vecchi” degli ultimi decenni americani amo Philip Roth. Quanto a McCarthy, amo e insegno ai miei corsi “La strada”. Vedo che nel ricordare questo autore, in questi giorni, molti si soffermano sulla sua “produzione western”, per me è lo scenario distopico di “La strada” che più di tutti incarna, con violenta precisione, lo spirito nero del nostro tempo.
Berlino (Love Parade), Torino (Holden), ora citi “La strada”. Non appari persona facile al radicamento territoriale. Eppure oggi sembri figlio di Londra.
Non essere radicati era forse un privilegio della gioventù. Oggi è diverso, ho un luogo che riconosco come casa ed è Londra. Non è un paradiso, è una metropoli dove il senso di possibilità si paga a caro prezzo. Londra vive nell’inquinamento, con una crisi abitativa spaventosa, con prezzi degli affitti fuori scala. Non so se oggi, fossi più giovane, mi fermerei qui. Quando ho iniziato a frequentare questa città, negli anni ’90, Londra era una città già spietata ma ancora piena di luoghi nascosti, vitali, underground.
Perché allora restare a Londra?
Forse perché è un rifugio. Qui finiscono da sempre gli outsider di mezzo mondo. Mi riconosco nella nozione di outsider. Mi sento alieno davanti a certe dinamiche italiane, non vengo da una famiglia borghese, non ho fatto studi accademici, non ho avuto padrini o madrine, sono un uomo schivo. Mi fa un po’ sorridere quando vedo che in Italia, all’interno della scena culturale, tutti conoscono tutti. E poi sentire che tutti si definiscono outsider. Ho sentito autori celebrati, baroni universitari, persone con cognomi famosi, intellettuali vicini alla politica definirsi romanticamente “outsider”. Alla prova dei fatti io suppongo di esserlo davvero. Non ne faccio una bandiera, è solo un fatto.
Quando nasce invece Londra Scrive?
Nel 2017, forse anche in reazione al referendum della Brexit, ho sentito il bisogno di ritrovare una comunità italiana. In quel periodo ho fondato un festival di letteratura italiana a Londra e poi Londra Scrive, un programma di corsi di scrittura per italiani o persone che scrivono in italiano. Oggi Londra Scrive nella sua versione online è frequentata soprattutto da italiani che vivono all’estero, nel Regno Unito o altrove. Un forte elemento è quello della lingua: outsider o no, italiano o londinese, scrivo in italiano e mi piace insegnare a persone che scrivono in italiano. Ma ricordare la genesi della scuola mi riporta alla recente chiusura di The Italian Bookshop, luogo che ha ospitato i nostri primi corsi, il centro fisico di una vera comunità. La chiusura di questa libreria ha lasciato uno strappo. Spero che il lavoro straordinario di Ornella Tarantola, che dirigeva la libreria, riemerga presto in altre forme.
Perché ha chiuso?
Anzitutto per l’aumento post-Brexit dei costi doganali, che ha reso difficile importare i libri.
Sembra quasi la concretizzazione di uno degli obiettivi dei sostenitori della Brexit. Rendere più difficile la vita agli stranieri.
La Brexit si è presentata con due retoriche intorno all’immigrazione. Una era apertamente xenofoba. L’altra aveva slogan come “meno Europa, più global Britain”: l’idea che gli immigrati europei, che arrivavano in massa a cercare lavoro, valessero meno degli immigrati più specializzati da altre parti del mondo. Il risultato è che l’immigrazione, dopo la Brexit, non è scesa ma aumentata. L’anno scorso il Regno Unito ha accolto oltre un milione fra immigrati e studenti stranieri. Per calmare l’istanza xenofoba, però, il governo e i media spettacolizzano la caccia agli sparuti clandestini che attraversano la Manica in gommone, e rendono disumano il processo di richiesta d’asilo. In ogni caso, aldilà della Brexit, l’Italian Bookshop ha chiuso anche per altre ragioni.
Quali?
La solita strisciante concorrenza “amazonica”. E poi, a mio avviso, aggiungo una questione di feticismo del libro.
In che senso?
Il libro viene trasformato in feticcio: spesso gli eventi e le presentazioni sono affollate, le fiere del libro richiamano folle, ma tutto sembra giocarsi sul piano dell’evento occasionale, speciale, instagrammabile – l’unico che riesca ancora a catalizzare un po’ della nostra frammentata attenzione. Il tipo di evento che ci riporta l’aroma dei libri, della libreria, di un mondo che ci piace pensare ancora come nostro, ma che sosteniamo in maniera sempre più intermittente. I libri li fotografiamo (quanto a leggerli, chissà) e alle librerie regaliamo cuoricini sui social; ci sconvolge l’idea che chiudano, ma – parlano i fatti – non le sosteniamo con sufficiente continuità. Certo non si può imputare tutto ai comportamenti individuali, oggi librerie e altri luoghi della comunità vengono spazzati via da dinamiche più grandi di noi; però è importante anche evitare ipocrisie.
Di recente una editor mi ha detto: “Non sai quanti manoscritti ci arrivano accompagnati dalla seguente frase: non leggo libri, ma credo che la mia storia valga la pena di essere raccontata”. Gente che segue l’aroma del libro, evidentemente.
Da docente posso affermare che molti miei studenti hanno letto. Forse non abbastanza. Per capirsi, per intendersi, si converge quasi sempre sui classici moderni. Calvino, Buzzati, Morante, Fenoglio. Avventurarsi in tempi più recenti è un campo minato, romanzi anche di recente successo sono già stati dimenticati, e gli autori contemporanei non sono protetti da nessuna “aura”, vengono criticati spesso con la carica polemica e pignola di una discussione da social.
Quanto pesano i social media sulle questioni di cui stiamo parlando?
I social sono una delle cose peggiori mai accadute alla letteratura. Hanno frantumato la capacità d’attenzione, esaurito lo spazio del pensiero profondo. Ne parla per esempio Johann Hari nel suo “L’attenzione rubata”. Questo declino cognitivo deforma la mente dei lettori e probabilmente di molti autori. Quanto agli scrittori che scrivono sui social, spesso diventano presenze patetiche. O si piegano alla neolingua delle piattaforme (discorsi innocui, cuoricini, carinerie assortite e frequenti punti esclamativi), il che appare mortificante per qualcuno che di lavoro dovrebbe far vibrare il linguaggio, oppure lo scrittore trasferisce sui social il suo impegno politico, ma la sua voce si disperde fra migliaia di altre voci che elemosinano attenzione.
Uno come Proust potrebbe essere utile a ritrovarci? Sto seguendo un podcast molto bello, “Chez Proust”, di una scrittrice che penso tu conosca, Ilaria Gaspari.
L’ho ascoltato, molto bello. La fascinazione per Proust rimane viva in questi ultimi anni, nonostante si tratti di un autore agli antipodi della mente umana del ventunesimo secolo. Sarà proprio questo sgargiante contrasto ad attrarre. Se leggiamo Proust realizziamo che la letteratura scritta da esseri umani ha qualche possibilità di sopravvivere. L’umano sopravvive nelle profondità di una metafora, di una dettagliata descrizione, di un passo straniante in cui si guardano le cose come per la prima volta, di quei momenti stilistici che solo gli strani ondeggiamenti di una mente umana può produrre. A un’intelligenza artificiale puoi chiedere forse di scrivere nello stile asciutto di altri autori e magari lo farà, ma non credo Proust sia davvero imitabile, automatizzabile, non ancora. L’umanità sopravvive nelle pieghe dello stile.