Di Marina Abramović sappiamo un po’ tutti qualcosa, chi più chi meno. Non serve essere critici d’arte o appassionati cultori per conoscere i suoi lavori. Tantomeno per screditarli. Dunque cosa ci può lasciare di nuovo il talk a cui ha partecipato a Roma qualche giorno fa? Nei giorni scorsi è andato in onda un talk fra marina e il direttore artistico del MAXXI di Roma Hou Hanru. L’occasione è stata data dalla mostra “Più grande di me. Voci eroiche dalla ex-Jugoslavia”, in programma fino al 12 settembre 2021, in cui Abramović è presente con l’opera Rhythm 0.
I biglietti si sono volatilizzati nel giro di qualche giorno, indice e conferma del grande seguito che l’artista serba riesce ancora a riscuotere dopo tanti anni di carriera, ed è stato possibile assistere alla sua diretta streaming face book – per qualche euro. Ascoltare la Abramović parlare della sua carriera di artista, svelando i retroscena delle sue opere più note, tra cui ovviamente quella in mostra, è sempre un’esperienza.
Tuttavia al talk in tutta onestà non è stato aggiunto niente di nuovo al di là di quello che, appunto, tutti conosciamo anche grazie ai due docufilm prodotti nel giro di quattro anni - Marina Abramović - The Artist Is Present nel 2012 e The space in between: Marina Abramović and Brasil nel 2016 di Marco del Fiol. Certamente quello che emerge con forza è il grande carisma dell’artista settantaquattrenne che ancora possiede una vitalità feroce.
Qualche motto siamo riusciti a estrapolarlo: “Ground you in the moment, JUST BE PRESENT” è come un mantra che viene ripetuto a più riprese durante il talk. Un mantra e un vero e proprio metodo artistico. Quello che insegna nel suo istituto, suo ultimo progetto lavorativo. E quello che dice di aver appreso nei suoi anni da artista, in particolare da lavori come The artist is present del 2010. In quell’occasione rimase per 736 ore a osservare i visitatori seduti davanti a lei. Fra questi vi fu Ulay, suo compagno di vita e d’arte per anni. Tanti fra loro piansero apertamente.
E ancora ricordi sono stati portati alla luce, in particolare il rapporto affettivo e collaborativo con Ulay, sono stati numerosi durante il talk al Maxxi. Nessuno può dimenticare la teatralizzazione della loro rottura. Si separano nel 1988 sulla muraglia cinese, quando dopo novanta giorni di cammino, si incontrarono al centro e si dissero addio. Cosa c’è di più teatrale artistico e mistico di questa rappresentazione?
Le sue opere degli anni ‘70 sono ancora estremamente attuali e prima fra tutte campeggia Rhythm 0, che indaga l’emancipazione femminile e il ruolo cruciale delle donne nella tormentata storia dei Balcani, suoi luoghi di origine. La performance, avvenuta nella galleria Studio Morra di Napoli nel 1974, ha visto l’artista immobile per sei lunghe ore; il pubblico era invitato a utilizzare la Abramović alla stregua dei 72 oggetti presenti sul tavolo accanto a lei, diventando di fatto essa stessa un oggetto. Per sei ore è rimasta in balia delle voglie del pubblico, completamente inerme, rischiando violenze. Fu da subito scandalo. La sua risposta ora, dopo tanti anni? “Io penso alla morte per godermi la vita.”
L’ossessione del corpo come strumento suscita ancora grande scalpore: tante le domande che le sono state fatte su questi esperimenti artistici e su come il body art sia ancora shoccante. Dopotutto suscitare forti reazioni emotive è al centro della filosofia artistica in questione e la Abramović ha spesso lavorato con gli estremi, li ha eletti a simbolo e paradigma. Ma l’arte ancora oggi che siamo ben lontani dai ruggenti e rivoluzionari anni ‘70 deve quindi essere necessariamente militante? Sì e ancora sì per Marina Abramović che si rivolge direttamente al pubblico:
“Voglio dire ai giovani artisti di non preoccuparsi delle opinioni altrui e di seguire il proprio cuore: fatevi sorprendere dal mondo e trovate muri da attraversare”. Per inciso, questa è una semicitazione della sua autobiografia: Attraversare i muri. Un’autobiografia, con James Kaplan,pubblicata nel 2016. Insomma,da questo incontro ne siamo usciti con qualche certezza ben consolidata e con nessun pianto. La nota divertente è stato sicuramente il forte disagio streaming fra partecipanti ignari della lingua inglese e dei tecnici MAXXI alle prese con le loro ire.
Una cosa è inequivocabile: l’arte che si può vivere a pieno è quella in prima persona, dove il coinvolgimento non è vincolato da computer o dirette streaming. Tra l’altro in lingua inglese, ma a Roma – per citare i commenti face book alla diretta. Quindi, l’arte deve porre domande, farti vacillare, inchiodarti a una sedia e non scadere in un bene da consumo. La nostra responsabilità è comune a quella della Abramović e dei suoi compagni: quella di agire, di condividere. Magari, con un po’ di provocazione, di attraversare qualche muro.