Dopo quasi 40 anni di carriera – l’esordio con i Denovo risale al 1984 – Mario Venuti snocciola qualche parola apparentemente amara: “Posso dire che mi hanno sottovalutato. Sì, la critica mi ha sottovalutato”. “Apparentemente”, perché il tono con cui Venuti parla di tutto o quasi – dei Denovo, appunto, come del generale Roberto Vannacci – è un soffio affabile che sfugge alle tentazioni dell’aggressività. Del resto Venuti, per cui sembra stata appositamente coniata l’etichetta di “pop d’autore”, è una voce rara nel nostro panorama. Una voce che con grazia, ma restando sottilmente controcorrente, non ti suggerisce di “combattere” i tuoi demoni, bensì di seguirli. E proprio “Segui i tuoi demoni”, il nuovo singolo (uscito per Microclima, distribuzione Artist First), è stato il pretesto per una chiacchierata partita da lontano.
Ad osservare il tuo percorso dotandosi di uno sguardo più panoramico che particolaristico, tutto sembra avere senso. Eppure l’evoluzione che ti portò dai Denovo all’esperienza solista, all’epoca non fu compresa da tutti.
Mah, per quanto i Denovo affondassero nel contesto della new wave – tiravano ad alcune cose dei Talking Heads o degli XTC –, non ho mai avvertito uno stacco netto fra le due fasi. Alla fine sono sempre rimasto in bilico fra il pop e la canzone d’autore.
Possiamo allora dire che con “Soyuz 10” (2019) e “Tropitalia” (2021) hai definito la tua dimensione artistica più adulta?
Sono sincero: non saprei. Non so ancora se e quando sono diventato adulto (ride, nda) perché sono ancora affezionato a una dimensione quasi fanciullesca – una dimensione prettamente pop – che non ho abbandonato e forse non abbandonerò mai. Il pop in fondo è il luogo dell’adolescenza, il luogo della giovinezza protratta all’estremo, a cui un autore come me resta aggrappato con le unghie. Il pop è un genere che si nutre anche di
ingenuità, di fisiologica banalità. Non è quello il contesto della serietà, dell’intellettualità. Chi fa pop deve liberare il beatlesiano “yeah yeah yeah” che ha ancora dentro.
A proposito di “yeah yeah yeah” e successi pop. “Veramente”, forse la tua più grande hit, risale a circa vent’anni fa.
Uscì nel gennaio 2003. “Veramente” fa parte di un gruppetto di classici che comprende “Fortuna”, “Mai come ieri”, “Crudele”, “Caduto dalle stelle”. Ecco, in termini di visualizzazioni forse “Caduto dalle stelle” ha persino superato “Veramente”, ma quantificare il successo con le visualizzazioni di YouTube non è un’operazione così scientifica.
Dopo “Veramente”, vent’anni di attività in cui, sempre con una raffinatezza vocale degna di Michael Franks o Boz Scaggs, ti sei definito “L’ultimo romantico” (2012) e hai cantato “Il tramonto dell’Occidente” (2014). Oggi torni con “Segui i tuoi demoni”. E canti: “Viene l’estate, la stagione delle brutte canzoni. È un mondo superficiale, non ti conviene andare a fondo anche perché non troveresti niente”.
E sì, dai (sorride, nda). Parliamo di una superficialità senza speranza né redenzione. Il problema di certe canzoni brutte è che sono false da capo a piedi. Se una canzone viene fuori brutta, amen. Capita. Ma mettersi a tavolino per farle così brutte è diabolico. Alla fine è un gioco, mi pare evidente. Pensato per spingere la tal starlette, soddisfare il tal sponsor. E mi fermo qui. Di canzoni belle, in giro, ce ne sono. Ma davvero non vado oltre, non voglio che poi qualcuno mi si scagli contro dicendo che sono solo un invidioso (ride, nda).
Provi il divertito fastidio di chi è già stato definito “pop d’autore”.
Sì, è un’etichetta che qualcuno mi ha già dedicato. E che sento abbastanza mia.
A riprova che il pop, pur potendosi permettere quelle fisiologiche banalità di cui parlavi, può volare alto.
Certo. Torno ai Beatles. I Beatles dei primi anni erano immediati, selvaggi. Tutto in tre minuti. L’esuberanza giovanile, le capigliature, gli “yeah yeah yeah”. Tutto ti arrivava dritto e genuino. Però i Beatles offrivano anche un altro livello di lettura. Dietro quella semplicità c’erano le armonie, le melodie, tutto ciò che li ha resi immortali.
Spostandoci in Italia: i tuoi riferimenti sono gli autori di cui hai eseguito i brani in “Tropitalia”?
Sì, ma non solo. Guardo a Lucio Battisti, Luigi Tenco, Domenico Modugno, Umberto Bindi. Ma anche Francesco De Gregori, Paolo Conte, Antonello Venditti, Franco Battiato. L’aristocrazia del cantautorato italiano mi ha dato ispirazione, tanta materia su cui riflettere.
Torno ai demoni del tuo nuovo pezzo. Dicendo di seguirli, i demoni, sembri collocarti oltre chi ha sempre suggerito di affrontarli per sconfiggerli.
Sì, in genere dicono di seguire gli angeli, ma il demone non è solo negativo. Esistono i demoni che ti conducono all’autodistruzione (pensiamo alle dipendenze), ma io qui interpreto il demone come un’ossessione che ti guida, che rivela ciò che realmente sei. La musica è stata il mio demone. Fonte di enormi soddisfazioni, ma anche di sofferenza. Però l’ho sempre seguita. Col demone, alla fine, ci devi convivere, devi controllarlo. È un discorso lungo, che ci conduce a questioni fondamentali. Il senso della vita, tanto per dire: cosa ci rende felici? Cosa ci fa sentire realizzati? Come ci rapportiamo agli eventi che possono travolgerci?
Che la musica ti abbia dato soddisfazioni possiamo intuirlo, visto che dopo quattro decadi vivi ancora di canzoni che tu stesso scrivi. Ma la sofferenza?
Sono un dannato della perfezione. Ho dovuto prendere gli ansiolitici perché non ero soddisfatto del missaggio di un mio disco. Mi è capitato di ascoltare una mia canzone alla radio e agitarmi perché mi sembrava che la produzione finale non fosse impeccabile. Una questione di ipercontrollo: provi a controllare ossessivamente tutto, anche cose su cui non puoi intervenire o che non puoi condizionare. Non ne sono ancora uscito del tutto, e infatti il nuovo album non è ancora finito (sorride, nda). Poi forse oggi, dopo tutti questi anni, posso dirlo: credo di essere stato sottovalutato. Penso di aver dato tanto, ma non sono sempre stato ricompensato, soprattutto dalla critica. Vengo ancora visto come una strana creatura, come se non fossi stato compreso appieno. A volte ho la sensazione che la gente non abbia sempre colto “l’altro livello di lettura” nelle mie canzoni. Canzoni stratificate, qualche volta fraintese perché pop. Una parte della critica, in questo senso, non mi ha aiutato.
In che senso?
Ho avvertito un po’ di prevenzione. Io, pur non essendo uno stinco di santo, mi sono sempre posto, essenzialmente, come un bravo ragazzo. La critica, invece, di solito rimane affascinata, quasi soggiogata, dagli artisti maledetti. Guarda Morgan: è bravissimo, ha talento, ha scritto un album splendido come “Canzoni dell’appartamento”, ma non fa uscire un disco nuovo da non so quanti anni (dal 2007, nda). Eppure prospera ancora grazie alla sua aura maledetta. Ciò che lo rende interessante e attraente anche oggi che è, soprattutto, un personaggio televisivo. Da tempo faccio uscire un album ogni due anni, il mio è un canzoniere folto, ma resto ancora uno “strange fruit”, un oggetto non identificato.
Mi ha colpito, di recente, su Facebook, il tuo post su Roberto Vannacci. Scrivi: “Il generale con le sue esternazioni si rivela retrogrado e fa sospettare una omosessualità repressa, come accadde al personaggio di “American beauty”…
Quando si parla di omossesualità bisognerebbe trattare con molta prudenza i concetti di “normalità” e “natura”, perché noi siamo natura e cultura, e in certi casi persino più cultura che natura. Per un omosessuale amare un altro uomo è quanto di più naturale, quindi di quale natura parliamo? Di quale normalità parliamo? Poi credo che un etero convinto non dovrebbe sentirsi in alcun modo minacciato dall’omosessualità altrui. In che modo l’omosessualità di qualcun altro può minacciare la tua volontà e il tuo desiderio di creare la famiglia tradizionale delle pubblicità? Qualche sospetto mi viene…