Mi viene da dirla così, una folgorazione: se gli influencer devono avere un ruolo, ecco devono fottere il mondo. In un certo qual senso devono vendere la Fontana di Trevi all’ingenuo Decio Cavallo, l’archetipo dell’utente sprovveduto, come il principe De Curtis nel film di Camillo Mastrocinque. Cioè devono riuscire nell’iperbole di rendere credibile uno scaldino ai piedi di un iceberg. Imbonitori di ultima generazione, che possono anche fatturare benissimo, con un dizionario di inglesismi spiccioli da usare come un portfolio, un curriculum, una farmacopea. Dici brand e hai detto tutto. Brand: ed è già mercato. Capitale.
Bisogna saperci fare. Martina “Amabile” Strazzer. Vi dice qualcosa? A me fino a ieri non diceva niente.
Male. Malissimo. Fattura dieci milioni di euro solo nel 2023.
È un’influencer, ha ventitré anni. E nel giro di quattro anni diventa un’imprenditrice, scivolando da TikTok a investimenti degni di quotazioni da far salire in borsa come il gong di una pentolaccia. Vende gioielli. Ha cominciato a diciannove anni. Con 300 euro, regalino dei nonni, ne commissiona uno. Il primo. Il numero zero. Poi non si sa come esplodono i prodigi. Fuochi d’artificio a consumo dei prescelti. Finisce su TikTok e le vendite impennano. Sembrano certe storie americane, loro gli americani hanno questa fissazione, di mostrare i muscoli, più o meno in ogni vicenda. Il cosiddetto american dream forse nasconde una questione di egolatria, più che di opportunità. Martina Strazzer pensa al nome del brand, ecco l’esotismo funzionale e pragmatico che torna puntuale, è il suo secondo nome: Amabile.
Gioielli che vende avvalendosi di competenze diversificate, quaranta dipendenti, uffici e magazzini tirati su con la velocità del prodigio che perfora la normalità in fondo di una vita. E c’è da sgranare gli occhi quando succede in una città di provincia, o della Bassa, in cui tutto par dover accadere, fuorché qualcosa. Ma è edificante saper che una studentessa in biotecnologia tenti il grande salto, con un cervello che progetti semplicemente oltre un paio di babbucce decorate di strass. Quindi ci sono influencer e influencer, non è tutto zigomi e labbra perfezionate con fillers, al di là della poetica dell’acido ialuronico, la risposta estetica al quesito svuotante. La risposta alla domanda “chi siamo” con mini iniezioni di vanità turgide può cedere il passo a tentativi ragionati su altre sponde.
Lasci il chirurgo estetico per rivolgerti a trattati di economia. E sei già il content creator di frontiera. Interessante.
Il paradigma resta Chiara Ferragni. Si erge ancora indiscussa, il cromlech intoccabile. Quella che è stata e rimane. E tutto bisogna che si conformi al parametro, il prima e dopo Ferragni.
Il lìtuo che l’àugure utilizza per intercettare presagi. Monili. Ciabattine. Quel che si può. Quel che non si ha. Spesso è la vera impresa, fatturare quel che non esiste, il lip sync, quel che non si ha, la metafora della fontana di Trevi venduta al babbeo. Babbeo per dire. Bisogna saperci fare.
Cercare per una vita la pepita d’oro nel Klondike. La funzione di un influencer è evocarla, e non c’è alcuna certezza. Non la troverai. Ed è questa la cosa migliore che possa accadere: il sogno che non accade.
Così si muore desti.
L’influencer è tanto allora, la stonehenge della probabilità più prossima alla chimera che all’utopia. La chimera è di parecchio più dolce. La chimera non ha un residuo acre e restituito a tradimento sul finale, il chiaroscuro su cui riflettere.
Nel regno del trompe-l'œil, il talento di chi riesce a fatturare polvere di stelle tutto sommato può definirsi genialità.