“Mi presento son l’orsetto ricchione, e come avrai intuito adesso ti inculo”. Questi I versi immortali del brano Il vitello dai piedi di balsa di Elio e le Storie Tese, anno 1992, contenuto nell’album Italyan, Rum Casusu Çıktı, brano oggi anche solo impensabile, come buona parte del repertorio della band milanese, le maglie della censura diventate strettissime, una specie di muro altissimo e con il filo spinato sopra, a causa del policitamente corretto, fatta eccezione che per i brani trap, evidentemente incomprensibili agli orecchi dei censori. Pensare a brani come Piattaforma, come La follia delle donne, come Essere donna oggi, e mi fermo qui, e pensare a quel che oggi viene fatto passare come il pensiero unico, il non voler mai urtare la sensibilità di chiunque, come se l’ironia prevedesse di essere accettata dalla sensibilità altrui, è impossibile, la mente vacilla entrando in una sorta di corto circuito, con tanto di sanguinamento dagli occhi, schiuma alla bocca e poi, zac, morte cerebrale. Comunque, partiamo da quei versi, finale di una favola bizzarra, l’intro del brano degno del gran finale con quei versi “Nel boschetto della mia fantasia c’è un fottio di animaletti un po’ matti inventati da me”, una favola tanto folle quanto divertente, gli animali un po’ matti a dar vita a una trama complessa, fatta di menzogne e di tradimenti. Favola dove l’orsetto di cui sopra, fa la sua comparsa, comparsa a effetto, va detto, proprio nel finale, è una sorta di vendicatore non mascherato, giunto alla fine della storia a porre il suo, ehmmm, cesello, a mo di chiosa.
Oggi, e dove nel dire oggi intendo proprio oggi, mentre sto scrivendo, parlare di un orsetto che si inculi qualcuno è assolutamente fuori discussione, ricchione o non ricchione che sia. Perché proprio degli orsetti, nello specifico dei peluche a forma di orsetto, sono al centro di uno scandalo che affossando, in epoca social funziona così, un marchio di moda fino a ieri, e quando dico ieri intendo proprio ieri, era considerato tra i più cool e frequentati dalle star americane. Questi i fatti, credo sufficientemente noti, esce la campagna natalizia di Balenciaga, dal nome non troppo originale di Gift Shop, una campagna che ha per protagonisti, eccoci, una serie di peluche a forma di orsetto, già protagonisti delle sfilate primaverili del medesimo brand, e per coprotagonisti dei bambini. Fin qui, a parte l’idea di usare bambini per degli spot, discutibile non trattandosi comunque di prodotti rivolti a questi ultimi, niente di particolarmente strano. Solo che gli orsetti in questione, loro i veri protagonisti della campagna, indossano oggetti e capi tipicamente riconducibili al bondage, collari, legacci di cuoio, canotte fatte di rete a maglie larghe, cappelli di quelli che, volessimo giocarci la carta del revival, vedremmo bene in un remake di Querelle de Brest di Fassbinder, o in uno più lieve del bar gay di Scuola di polizia.
Le foto della campagna, fatte da Gabriele Galiberti, non si limitano a proporre gli orsacchiotti fetish con i bambini, sempre i bambini sono presenti nelle foto della serie Objects, nelle quali a fianco dei già citati orsacchiotti, fatti a pezzi, compaiono calici di vino e tutti quegli oggetti bondage, posti disordinatamente nel salotto scelto come location. Apriti cielo, le foto vengono considerate disturbanti e pericolose con conseguente prese di distanze da parte di nomi noti dello spettacolo, compresa Kim Kardashian, ambassador del marchio. Demna Gvasalia, direttore artistico del brand non tarda a fare le sue scuse pubbliche, con conseguente presa di distanza non solo dall’utilizzo di bambini per fare pubblicità, in modo specifico dall’aver anche involontariamente sessualizzato dei bambini. Tutto bene quel che finisce bene, si potrebbe pensare, non fosse che anche la campagna Garde-Robe 2023, sempre fotografata da Gabriele Galimberti, presenta aspetti anche più inquietanti. Perché se la campagna Gift Shop aveva negli orsetti bondage una chiara volontà di provocazione, esternata in oggetti che difficilmente i bambini avrebbero potuto decifrare come sessualizzati, non avendo nel loro vocabolario, si auspica, i vessilli del bondage, in questa, ambientata in uffici e con Isabelle Huppert e Bella Hadid, su tavoli da lavoro si intravedono dei fogli sparsi, sempre in un certo disordine. Siamo nel 2022, in piena epoca complottista, Balenciaga finito nell’occhio del ciclone per gli orsi fetish, basta un attimo e quei fogli vengono zoomati da qualche curioso e così si viene a sapere che si tratta di documenti riguardanti la pedopornografia, oltre che di fogli che riportano simboli esoterici di varia natura.
Se un orso con canotta e legacci di cuoio può in effetti passare per una provocazione, seppur una provocazione fuoriluogo, disseminare le proprie campagne con continui riferimenti alla pedopornografia no, è proprio un autogoal bello e buono. Autogol che porta il marchio al centro di una presa di distanza pubblica da parte dello star system fino a poco prima ben felice di sfoggiare capi della maison di proprietà del gruppo francese del lusso Kering, proprietarie anche di Gucci e Saint Lauren. Anche in questo caso le scuse non tardano a arrivare, con tanto di rimozione delle immagini incriminate, ma al loro fianco ecco anche una denuncia alla società di produzione North Six e allo scenografo Nicholas Des Jardins, chiamati in causa con una richiesta di danni per venticinque milioni di dollari. L’accusa è quella di aver portato sul set non, come concordato, finti documenti, ma materiale proveniente da altri set, probabilmente da una serie tv legal, per sconsideratezza o, peggio, malevola volontà di causare un danno a Balenciaga. E dire che giusto un mesetto prima di questo scandalo, nell’ottobre 2022, era stato proprio Balenciaga, seguito di lì a breve da Adidas, aveva interrotto rapporti con Kanye West per certe sue esternazioni antisemite degli ultimi tempi. Separazione abbastanza clamorosa, visto che il rapper e produttore americano aveva firmato una collezione per GAP, Yeezy, dopo aver tenuto un rapporto di vicinanza con il direttore artistico Demna Gvasalia, al punto che la sua ex moglie, Kim Kardashian era arrivata a ricoprire il ruolo di ambassador del brand. Kanye West, che di qui in poi, tanto per non essere tacciati di patriarcato, chiameremo l’ex marito di Kim Kardashian, non è certo tipo che si è fatto mancare qualcosa, in quanto a polemiche. Da quelle con Donald Trump, cui ha proposto di diventare suo vicepresidente nel caso venisse eletto a capo degli Stati Uniti d’America, ottenendo per contro un rifiuto accompagnato da dichiarazioni non certo entusiastiche, “Kanye West ha seri disturbi mentali”, a quelle per aver provato a rivalutare l’immagine di Hitler, passando per quelle nelle quali è finito per aver diffuso presso i suoi dipendenti foto porno della sua ex.
A dirla tutta, e non so a questo punto se si possa parlare di un caso, il simbolo cui Kanye West è ricorso a lungo, sin dal suo esordio del 2004 con The College Dropout, nelle copertine e nel merchandising dei suoi dischi, è un orso. Sotto la direzione artistica di Eric Duvauchelle, l’orso è stato il protagonista della cosiddetta triologia del Dropout Bear, l’orso emarginato, appunto. Entrato in corsa nel progetto, dopo che il fotografo Danny Clinch aveva già fotografato il rapper con indosso il costume da orso, trovato casualmente nella palestra scelta come location per lo shooting, Devauchelle ha l’intuizione di elevare l’immagine di quella che evidentemente era una mascotte a incarnazione di una solitudine dovuta alla propria unicità, la malinconia a sostituirsi a quella che solitamente è la gioia che la mascotte deve giocoforza veicolare. L’anno successivo, il 2004, è la volta di Last Registration, dove però la casualità dello scatto fatto sulle gradinate della palestra lascia il posto a una vera e propria strategia, e l’orso passa dall’essere malinconicamente solitario all’essere quasi minaccioso, all’ingresso della Princeton University. La direzione artistica stavolta è affidata a Louis Marino, e il progetto prende sfumature decisamente ironiche, West dichiarerà di aver voluto omaggiare negli scatti le opere di John Currin, uno dei suoi artisti preferiti. Se con The College Dropout tutto sembrava quasi casuale, stavolta nulla è lasciato al caso, a partire dallo stile esibito dall’artista, decisamente più sofisticato, elegante, al punto che l’orso in questione diventerà a sua volta un oggetto di moda, prodotto da Louis Vuitton come zainetto.
Due anni e nel 2007 la trilogia si chiude con Graduation, come a voler chiudere il ciclo di studi secondo lo standard americano. Stavolta l’orso è presente sotto forma di opera grafica dell’Andy Wahrol giapponese Takashi Murakami, chiamato a seguire tutta la direzione artistica dell’operazione. L’album, come ben si può intuire dai potenti singoli Stronger, che vede il nostro collaborare col duo francese dei Daft Punk e Good Morning è non solo futuristico, quasi fantascientifico, ma decisamente molto ma molto ambizioso, una prova muscolare di un artista che ha finalmente conquistato la vetta del mondo. Nel suo caso, a differenza che per Balenciaga, l’aver abbandonato a un certo punto l’orso, scomparso dai radar a partire dal suo quarto lavoro, 808s & Heartbreak, è coinciso anche con una certa perdita di lucidità, al punto che proprio l’assenza di lucidità è oggi il suo tratto distintivo. Oggi, del resto, non è più il marito di colei che con un solo colpo di culo ha spaccato l’internet, oltre che non essere più un socio di Balenciaga e Adidas, forse neanche più un artista di rilievo della black music contemporanea, sia mai che qualcuno dovesse pensare a lui come a un afroamericano, White Lives Matter, per dirla con parole sue. La morale di questa storia è che gli orsi saranno anche simpatici da vedere, ma restano pur sempre mammiferi pericolosi. Specie quelli che vivono nel boschetto della fantasia di Elio e le Storie Tese, quelli, per parafrasare una vecchia battuta di Renato Pozzetto in Grandi magazzini, non mordono, ma nessuno li ha ancora castrati, è un attimo che ti si inculino.