Avrò pianto cinque volte, forse sei. Forse ho perso il conto. Mentre guardavo “Mi chiamo Francesco Totti” - il documentario del calciatore della Roma attualmente su Amazon Prime Video oppure on demand su Sky - sapevo di essere di fronte a qualcosa di semplice, di facile e allo stesso tempo di diretto, di malinconico: l'ultima memoria del capitano della squadra della capitale, un ultimo sfogo, utile a far capire, una volta ancora, che Totti è Roma e Roma è Francesco Totti.
Ma è proprio nell’essenzialità di questo messaggio che sta la forza di questo documentario. Una semplicità che in molti, tuttavia, non hanno apprezzato, ritenendo questo prodotto, a tratti, troppo scontato ed eccessivamente incentrato su momenti della vita di Totti già noti da tempo, o comunque non in grado di aggiungere nulla al suo personaggio. Sbagliato. Molto sbagliato.
Totti si è mostrato, come sempre nella sua carriera, per quello che è, cioè è una persona semplice. Un classico italiano medio. Parla in romanesco, è ironico, autoironico, permaloso, ama la vita “tera-tera”, è legato alla famiglia, senza troppi giri per la testa, è schietto, è convinto dei propri mezzi e ha un unico obiettivo che non è vincere, ma è più profondo: mai deludere la capitale e la sua gente.
La vita di Totti, di fatto, gira tutta intorno a questo concetto e credetemi che è un obiettivo complicato perché “Roma è così grande che di notte ti prende, ti inghiotte. Fotte la mente, un gigante che ti culla. Tra le urla che non sente. Ti compra, ti vende, ti innalza, ti stende. Ti usa se serve, ti premia, ti perde” come canta Piotta in “7 Vizi Capitale” la colonna sonora della prima stagione di Suburra. E spiega benissimo che cosa significa Roma: una città passionale, calda, energica, ti dà e ti toglie, ti sorprende e ti stritola, è ossigeno e anidride carbonica, è la condanna e la salvezza. “Un giorno voglio essere una persona normale. Ci sarà un giorno da qui a che ‘moro? Per me no. Quello che ho vissuto io con la gente di Roma, nessun'altro al mondo l’ha vissuto”.
Quello che emerge con grande chiarezza dal documentario girato da Alex Infascelli è la purezza dell’uomo, la genuinità, la spontaneità con i suoi alti - le giocate, le goliardate, le battute, i momenti belli - e quelli bassi come il calcio a Balotelli, lo sputo a Poulsen e le innumerevoli incazzature con gli arbitri. Totti non appare un dio pagano in questo prodotto, ma viene mostrato dannatamente umano, fatto di carne e ossa, di sangue e emozioni, di anima e mente, di carattere e sentimenti. E la voce narrante di Totti riesce a consolidare questo tentativo del regista di conferire al documentario ancora più naturalezza.
Io non sono romano, non sono romanista, ma amo Francesco Totti. Amo il suo percorso di vita, di crescita, di rinascita. Francesco viene catapultato dalla curva, come tifoso, al campo dello Stadio Olimpico come giovane promessa. E ripete in continuazione una parola: destino. È il destino che lo ha portato lì, con la maglia giallorossa. Sempre il destino che gli ha permesso di restare nonostante mister Bianchi lo volesse mandar via ed era presente, il destino, al gol che vale lo scudetto in casa contro il Parma, poi i Mondiali, la Scarpa d’oro e l’addio, il commovente addio di Francesco Totti al calcio. Uno stadio intero, una popolazione intera, in lacrime. In quel momento Totti non è Totti, in quell’istante Totti è la Capitale. Totti diventa parte di Roma, come un monumento, come un’istituzione, come parte integrante della Città Eterna. Ecco, Totti, a differenza di tutte le altre bandiere, può essere anche odiato, non apprezzato, può essere scontato, ma nessuno potrà mai togliere a Totti il legame viscerale alla sua città ed è per questo che io amo Francesco Totti.
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