Come ricorda nella sua ultima intervista al Corriere della Sera in occasione di questa nuova edizione, a dieci anni di distanza, di Sottomissione (La Nave di Teseo, 2024), la conquista passa dall’educazione. È un trucco antico, quello delle scuole di palazzo, degli intellettuali di corte, degli indici dei libri. Oggi si crede che il consumismo abbia in qualche modo preso il posto dell’impero. Al posto delle scuole i social, al posto degli intellettuali gli influencer, al posto degli individui dei libri le classifiche. Ti dicono cosa pensare, come pensarlo – provate a fare un reel più lungo di qualche minuto o usando un termine poco immediato – e quando. Eppure c’è qualcosa che, in modo ancora più sottile, si sta innervando nella società. Un decennio fa circa Michel Houellebecq non era l’unico a dirlo ma è stato il più duro, il più profetico e, in un certo senso, il più sfortunato di tutti. Perché nell’anno dell’uscita di Sottomissione, in Francia, il giorno in cui la prima pagina era dedicata proprio al suo libro e allo scrittore, soprannominato “l’indovino”, dei fondamentalisti attaccarono la sede di Charlie Hebdo.
Ora, se volete sapere di cosa parla Sottomissione smettete di leggere. Le recensioni non sono sintesi e le sintesi non sono romanzi. Se volete sapere di che parla prendetelo e leggetelo. Di più: se pensate di potervi affidare a una recensione arrivata dieci anni in ritardo siete dei coglioni. Le recensioni fatte così in ritardo sono dei referti. Sto timbrando, come altri, una diagnosi già fatta, che si è rivelata tale, che non aveva bisogno del mio timbro o del timbro di altri; come ogni malattia troppo avanzata è già lì, evidente, indipendentemente dalle istituzioni mediche. Se ti senti occidentale, allora è molto probabile che tu stia morendo. E serve che qualcuno ti dica che stia morendo, non lo vedi il sangue nel lavandino, che ti scola sul mento, che ti macchia il maglione? In Sottomissione non troverete risposte, poiché le profezie, quelle reali, sono enigmi, spesso persino per chi le pronuncia. Così, dopo un decennio, Houellebecq non sa come spiegare quanto sia avvenuto nel corso del tempo, o forse è troppo pigro per mettersi a spiegarlo. Non sa esattamente come siano andate le cose, ma sapeva dove sarebbero arrivate. Come in un formicaio delirante che, indipendentemente dal cunicolo del labirinto, porta a quell’unico buco sulla terra. Solo che, come nell’Inferno di Dante, quel buco ti fa uscire di terra a testa in giù e stai già precipitando.
Crisi dell’Occidente, il punto è questo. In un senso abbastanza specifico: mollezza morale e forza intellettuale di chi arriva. Ci siamo abituati a credere al mito del selvaggio, buono o cattivo che fosse quest’ultimo. I razzisti sono convinti di accogliere in Italia dei primitivi, gli antirazzisti dei gattini mansueti. Invece, tra di loro, ci sono gli intellettuali e qualcosa che ha un peso culturale persino maggiore, i soldi. I soldi turchi, dell’Arabia Saudita, del Qatar. I soldi che permettono di costruire moschee, di stampare il Corano in formato ultratascabile da dare gratuitamente in giro. Una nuova evangelizzazione contro la quale gli europei straparlano (il ché è ironico, perché lo fanno utilizzando un’unica parola, brevissima, veloce da pronunciare): “Prego!” Si tratta della “dolce Conquista” di cui parla ampiamente Giulio Meotti (che nel saggio omonimo, per altro, intervista tra i tanti anche Houellebecq). Una conquista che passa dal consenso dei conquistati, un consenso indotto da una mancanza di vigore, di convinzione, di risolutezza. Di assertività anche, concetto che certo femminismo moderno ha completamente mandato in pensione insieme al machismo, concetto che tuttavia non andrebbe confuso con virilità. Ora ci ritroviamo, con dieci anni di ritardo, a capire quel che uno scrittore aveva già annunciato. Cosa? Che, evidentemente, “il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta”.