Mentre osservo con attenzione il bicipite dell’uomo esposto, penso d’un tratto a una tristezza invereconda. E vorrei distribuire al caso di ognuno licenziosità severissime da applicare ad uno status onnicomprensivo, il gergo urlatore cioè, che professiamo abbia una qualche compatibilità con il cosiddetto mondo. Non chiamerò mai più destino il destino (ma caso, al massimo iattura), per opportunità linguistiche striminzite e contemporanee e che contengono altrettanto parchi e risentiti moti dello spirito. L’uomo esposto ha 32 anni, è un attore, un modello, fa a pugni per uno sguardo lanciato male. Si chiama Michele Morrone. Lo guardo testé, su Instagram, in vetrina, non sono tranci appesi al morsetto. Non è una macelleria. Michele Morrone è un influencer. Cosa significa, mi chiedo? Cosa influenzano gli influencer? Domande a latere. C’entra poco con quel che sto guardando. Guardo una spalla, un muscolo turgido e noioso e una scritta, versi tatuati, vergati con orletti simili alle lettere in cirillico. Mi aspetto la grandiosità contigua, un attraversamento meditato tra il turgore umano (il muscolo tondo e definito) e l’inafferrabilità di una intuizione, una sensibilità. Leggo sul bicipite: “Cosce di colore marrone (…)”. Il resto non è chiaro. Non voglio aggiungere o abbellire per longanimità. Non sono sicura nemmeno dell’autenticità del termine usato: cosce. E se fosse posce? È un carattere interessante quello scelto da Morrone. Una specie di Garamond. Che vorrà dire? Cosce marroni, le mie sono bianche. Peccato. È un gran bel tipo, merita di fare l’influencer e le serie televisive un po’ erotiche un po’ alla Danielle Steell, con manette e virilità disimpegnate, mostrate giusto per far capire insomma che non c’è trippa per gatti. O anche: non ce n’è per nessuno. Ma grazie grazie, io sto bene così.
La biografia prevede ruoli minori nelle serie d’ordinanza tipo: Squadra antimafia; Provaci ancora prof. Senza colpo ferire, lisce come l’acqua, appartengono ad anni la cui nostalgia oggi, in confronto al digrignamento dei giorni correnti (in cui cuociamo rane vive per dirla con una litote, invece che teste da tagliare a cui aggiungere un epiteto congruo, teste di banana ecco), mi procura un senso di smarrimento superiore all’angustia di non aver inteso il resto dei versi tatuati sul bicipite di Morrone. Che fai ci sputi? Questo signore ha preso a pugni un tale, un giovanotto, per uno sguardo. Uff, con il sole di luglio, sudato, imbrattato, dopobarba, o profumo di vetiver, umori aspri e ormoni incazzatissimi. Fa impressione. Oh mamma. Questo signore ha addominali confacenti a taluni pensieri che tuttavia non riesco a ricordare. Nella scena della serie televisiva immancabilmente Netflix, l’adone ha di fronte una signorina con le manette ai polsi. Il resto non è dato sapere, nel senso che di solito preferisco soggetti-mausoleo, la mia partecipazione a una atmosfera di tipo erotico-sentimentale è pari alla mia curiosità dinanzi a una pentola che cuoce le verdure dell’orto. Cioè non sono la persona più adatta, per essere influenzata da Michele Morrone dovrei avere intanto una ferocia nell’insieme, ad esempio glutei sopra la penultima vertebra a scendere; tette metafisiche; tatuaggi virulenti, in luoghi inaccessibili. Gesta faticose e che comportano impegno, coraggio, coerenza. Occhi cupi, scurissimi, fondotinta giallognolo dorato. Una fosforescenza da tronista.
C’è un gorgoglio di inutilità a immaginarsi una relazione con un uomo prossimo al tediosissimo vademecum che in fondo abbiamo già conosciuto, bellissimo e stronzo. In apparenza. La certezza è che se non è bellissimo e stronzo non te ne fai niente, soprattutto se a guardare oltre non vedi che la tristezza gravida di spergiuri. Omissioni, putridume nel congedarsi dalle cose, e dici cose e non uomini, orgogli volitivi. Chiudo con le parole di un personaggio di Henry Miller, ancora lui: “Io volevo piantarla lì. Ma lei non voleva restare sola”.