Per comprendere Carlo Calenda non è necessario, di più, sarebbe inutile, dissennato, nocivo, affidarsi agli strumenti ordinari della valutazione politica professionale. Molto meglio tirar fuori dal cruscotto dell’auto il fascicolo Tuttocittà, lo stradario offerto insieme alle Pagine Bianche del telefono. Far planare subito lo sguardo sulle tavole dei singoli quartieri metropolitani. Nel suo caso, dopo aver fatto attenzione alla camicia bianca, la cravatta tricot e l’eventuale polo blu, chiunque in possesso di comprensione mondana andrebbe a cercare la tavola numero 28. Che inquadra il quartiere dei Parioli, altura, altana, monti omonimi dove, dal tempo del Littorio, risiedono i migliori pezzi unici di borghesia dell’Urbe. Vi ebbero già casa, non meno lucente, tra gli altri, il principe Antonio de Curtis e Galeazzo Ciano, ma anche, sia detto per inciso e completezza da showroom ulteriore di piazza Euclide, Eleonora Giorgi, Massimo Troisi e Ettore Scola.
In verità, anche la tavola numero 21 potrebbe fare al caso nostro. Il quartiere Trieste, a sua volta non meno occupato da professionisti, notai, primari, generali di brigata o divisione, presidenti di Bankitalia, senza poi omettere di menzionare le cliniche con prenotazione obbligatoria, tra Villa Ada, la parrocchia di San Saturnino, il Piper Club che ebbe come proprie residenti stelle Patty Pravo e Mario Schifano e addirittura l’edilizia fiabesca, tra D’Annunzio e Pitigrilli, delle case Coppedè di piazza Mincio. Insomma, la Roma che mai dimentica di portar con sé l’ombrello di marca, non certo acquistato dai bengalesi giunti in strada al primo sentore di pioggia.
Il punto di vista migliore per comprendere Calenda pensiamo debba essere dall’alto. Tra veleggiatore e aliante. Come se ci trovassimo, stregati, dentro un ellepì di Claudio Baglioni.
Calenda, infatti, pensandoci bene, può essere ritenuto a pieno titolo il Claudio-Baglioni-della-recente-scena-politica-italiana; romana, anzi.
“Tra piazza Euclide e la primissima Toscana…”, garantirebbe poeticamente per lui anche una toccante canzone d’altro cantautore, che ancora così conclude: “Tu sei nel mio cuore dal torneo di Orbetello”.
Così, sebbene Calenda, diversamente dal ragazzo di “Mille giorni di te e di me” non giunga dalla distesa abitativa popolare di Centocelle con il suo San Felice da Cantalice. Ma appaia anche a distanza subito figlio di Cristina Comencini, scrittrice da zuppa di farro o panzanella su sfondo azzurro tirrenico dell’“Ultima spiaggia” di Chiarone (solo chi non ha contezza esatta di certo mondo pronuncia infatti “Capalbio”) a sua volta rampolla del regista Luigi, cui si deve un capolavoro “civile” come “Delitto d’amore” con Stefania Sandrelli operaia e Giuliano Gemma nella parte del giovane anarchico Nullo, ma anche il “Pinocchio” televisivo che mostrava la casa della fata Turchina sulla riva del lago di Martignano, e perfino un non meno citato “Cuore”, dove proprio Carlo, piccino, nipotino, giovane marmotta del quartiere Africano interpretava il protagonista del libro di De Amicis: “L'alunno Enrico Bottini, figlio dell'ingegnere”, come da note di regia.
Forse, senza queste precisazioni paesaggistiche, Calenda risulterebbe incomprensibile ai più. Un semplice pischello ambizioso in motorino, presto giunto nella piazzetta della politica romana, assimilabile a un Veltroni e ad altri campioncini della scalata al “Palazzo”. E se in passato, sempre personalmente, in un articolo dedicato al suo esordio, l’ho definito “uno spermatozoo d’oro della Roma e affluente” occorre adesso, fermo restando la citazione baglioniana, tra “Lampada Osram” e “Questo piccolo grande amore”, riferire la sua presenza all’ipotetica convinzione che possa esistere una sorta di “forza tranquilla” centrista, nuovamente in polo e jeans, munita di pregressa militanza nella Fgci, i giovani del Pci, cui però, un tempo, le ragazze preferivano, sessualmente parlando, i coetanei di Lotta continua; un improbabile partitino pronto a sognare una posizione apicale nei sondaggi per rimettere ordine anche tra posata e bicchiere.
Si sappia ancora che per raggiungere piazza Colonna, dove si trova Palazzo Chigi, dalla casa dove attualmente risiede Calenda, non c’è bisogno di comporre lo “063570”, numero della cooperativa di taxi romani per antonomasia, che, come da slogan, “non vi lascia mai soli”, abitando egli adesso nei pressi di piazza Barberini, uno sputo di distanza.
Alla perfida domanda sulla sua matrice sociale posta da un’intervistatrice curiosa, Calenda, già allievo del liceo classico “Mamiani”, quartiere Prati, città non meno residenziale, tra dirigenti del servizio pubblico, ancora avvocati e notai e perfino leggendari trasvolatori del Polo, l’uomo così risponde: “Ovviamente ho frequentato anche periferie ma della parte nord. Quando andavo alle medie, ad esempio, avevo molti amici di Fidene".
Quest’ultima località, sia detto per inciso, rimanda narrativamente agli uffici della Motorizzazione civile Sede Roma Nord, poco glamour.
Nonostante ne sia stato parte, Calenda ritiene di poter fare in proprio di più e assai meglio del Partito democratico, che l’ha visto addirittura tra i suoi ministri. Il suo movimento, “Azione”, nel nome non specifica se si tratti dell’avvio del ciak o piuttosto un riferimento all’azionismo di Carlo Rosselli e Ernesto Rossi.
Va detto ancora che per caratteristiche sue, diciamo pure, attoriali, che solo impropriamente potremmo riferire alla categoria ordinaria dell’ambizione, in lui il paesaggio letterario moraviano, il fondale cinematografico familiare e le sit-com nuovamente veltroniane si fondono quasi a dimostrare che la Roma della politica possa essere anche altro dalla sua immagine più assoluta, ovvero gli autisti dei già citati politici, in attesa, scazzati, il blazer economico, sullo sfondo di Montecitorio mentre magnificano il menu, metti, della Trattoria del Gelsomino: “… ahò, fanno ‘na carbonara che nun ce se crede, ce devi annà…”. Il Gelsomino, sia detto per inciso, raccoglieva un tempo un disperato nucleo di baracche abitate da poveri dannati della terra cittadina, a pochi passi da San Pietro, dalla sua cupola; il Gelsomino citato anche da Pier Paolo Pasolini nella poesia-denuncia dedicata a Pio XII, romano dei principi Pacelli di Acquapendente: “Ci sono posti infami, dove madri e bambini vivono in una polvere antica, in un fango d’altre epoche. Proprio non lontano da dove tu sei vissuto, in vista della bella cupola di San Pietro, c’è uno di questi posti, il Gelsomino…”.
Nessuno potrà mai affermare che si tratti di versi ignoti all’animo “civile” di Calenda, tuttavia viene assai più facile ancora immaginarlo sullo sfondo marmoreo tennistico del Foro Italico, mentre sfiora in motorino il Circolo Canottieri Aniene, il più ambito della città, dall’allure edonistica epicurea capitolina con vista sulle alogene delle concessionarie d’auto di lusso incarnata da Giovanni Malagò, e infine il limitrofo Bowling “Brunswick” narrato perfino da Michelangelo Antonioni.
Oppure, volendo fare un tuffo carpiato ulteriore, davanti al “monumento a Mussolini”. Tra Circo Massimo, Roseto Comunale e Aventino. Dove ha luogo la scena più romanamente assoluta del film “I nuovi mostri” di Risi, Scola e Monicelli: Alberto Sordi nei panni del nobile “nero” debosciato che soccorre “il malconcio”. Dettaglio storico: quel cenotafio onora solo nominalmente Mazzini, mentre, a guardar bene, chiunque scoprirà la sagoma del “duce” nel suo altorilievo.
La domanda definitiva, assolutamente politica, anzi, carnalmente capitolina, riferita al possibile talento altrettanto politico di Carlo Calenda, recita infine così: chissà se, al contrario di Giovan Maria Catalan Belmonte, greve principe respinto da tutti i nosocomi, qualora volesse invece lui mettere in salvo l’appena citato “malconcio” riuscirebbe infine nell’impresa, Calenda nostro? Perché, a conti fatti, la politica si riassume in cose semplici, perfino nell’Urbe: trovare un posto letto a un disgraziato al “San Camillo” o, che so, al risaputo “Policlinico Umberto I”.
Mille giorni di Calenda e Calenda.