La terza e ultima stagione di After Life è approdata su Netflix con un carico di altissime aspettative e voluminose speranze. Ancora una volta, regia, sceneggiatura e interpretazione (principale) erano tutte affidate al genio di Ricky Gervais, il più grande stand up comedian che calca il nostro globo terracqueo (questo potrebbe essere un parziale parere di chi scrive, ma sfideremmo chiunque a non metterlo almeno tra i primi tre). Se il suo nome non dovesse ricordarvi alcunché, eccovi qualche proporzione del suo enorme successo: Ricky Gervais è l’uomo che ha creato The Office (la serie originale britannica, da cui poi ha preso il via il remake americano), oltre a essere la mente di film come The Invention of Lying (su Prime Video, in caso non lo aveste ancora visto) e di special (anche Netflix) grandiosi in cui pare che il nostro non si ponga (e non meriti di avere) limiti: a bersaglio delle sue stoccate entra di tutto dall’obesità all’AIDS passando per nazismo e Sacra Bibbia, senza mai provocare un effetto di straniamento da parte del pubblico pagante. Come mai? Perché non importa la delicatezza del tema che scelga di affrontare, il nostro riesce a trovare la chiave per renderlo dissacrante facendo rotolare la gente per le scale del foyer come per i corridoi di casa. Poi è arrivata l’idea di creare una serie per Netflix, After Life, la cui sinossi è presto detta: Tony, un uomo disperato per aver perso l’amatissima moglie Lisa a causa di un cancro, non riesce a convivere con il proprio dolore. Oppure sì? 18 episodi puntellati da apici davvero commoventi, battute sferzanti contro parenti come ignoti (bambini compresi) e un’atmosfera cimiteriale che appesantisce ogni inquadratura come a riprodurre il respiro di Tony, visibimente in agonia psicofisica. After Life è attualmente al primo posto delle produzioni Netflix più viste su scala mondiale, leggerete in ogni dove recensioni entusiastiche che plaudono la sapiente mano di Gervais, la sua regia, la profondità dei dialoghi che è stato capace di concepire. Crediamo sia giunta l’ora che qualcuno, pur a malincuore, ammetta l’indicibile: la terza, e conclusiva, stagione di After Life per i fan di Ricky e della serie tutta è stata una delusione. Cocente. Andiamo a dettagliare come mai. A fuoco lento.
Partiamo da un presupposto, ossia dal grande fraintendimento di base: quando la prima stagione di After Life approdò su Netflix (a. d. 2019), la pandemia ancora non esisteva davvero e tutti pensavamo che questa prima produzione originale per la grande N firmata Gervais avrebbe fatto ridere. E che avrebbe fatto ridere parlando di cancro, che matto quel geniaccio di Ricky. Ecco, purtroppo o per fortuna invece ci siamo ritrovati davanti ai primi sei episodi in forma di altrettante scudisciate sui ventricoli. Però al cubo. Qualcosa di dolceamaro, ma pur elegante, composto, british. La seconda stagione della serie era entrata ancora più in profondità nel prendere lo scalpo dell’anima degli spettatori con precisione chirurgica. E allora andiamo avanti, facciamoci (piacevolmente) del male manco fosse la Sacher di morettiana memoria. Fino alll’epifania, quello che doveva essere la catarsi definitiva: l’arrivo della terza e ultima stagione.
Ecco, se il pubblico (e con ogni probabilità anche la vostra bolla social) in questi giorni si sta sperticando in profusi encomi verso quest’opera di Gervais, sappiate che la critica internazionale (per esempio il Times Uk), si sta ancora domandando i motivi di questi entusiasmi definendola un vero e proprio enigma: “Gli spettatori la adorano e i critici non riescono a capire perché”. Lo stesso vale per il Telegraph che, le concede una sola stellina su cinque, insufficenza pienissima, ma il divario tra la percezione della critica e quella degli abbonati Netfix si staglia ancora più chiaramente nelle cifre di Rotten Tomatoes: la serie racimola un mesto 33 % come media voti della critica, contro un poderoso 93 % da parte degli spettatori. Allora, chi ha ragione? È uno di quei casi in cui chi scrive di tv veste i panni dello snob che la tv non l’ha nemmeno in casa dall’83, oppure la maggioranza della popolazione dotata di abbonamento Netflix, semplicemente, s’è presa una cantonata peggiore del frontale contro un tram che è, nei fatti, l’incredibile fascinazione suscitata da La casa di carta?
La risposta dovrebbe essere semplice: ci si schiera da una parte o dall’altra, posto che questa After Life non possa essere la serie di Schrödinger e quindi fare schifo e scatenare meraviglia allo stesso tempo. Ciò che possiamo dire è che, con tutto il rispetto e anche l’ammirazione verso il tatto con cui un argomento così delicato e personale sia stato trattato, la trama non va avanti. Mai o quasi. Ogni personaggio che ruoti intorno a Tony (i suoi colleghi nella redazione del giornale locale per cui scrive, come i freak del paesello e perfino il postino) è riassumibile in una sola frase di stagione in stagione. Giunti all’ultima puntata (quindi alla diciottesima) potete fare l’esperimento di piazzare davanti alla tv qualcuno completamente a digiuno della serie. Vi renderete conto che sarà sufficiente dirgli: “Lei non riesce a trovare una casa decente”. “lui ha difficoltà a staccarsi dalla mamma”, “quest’altro è il suo capo dal cuore d’oro”, “quel tizio non s’è mai capito bene chi sia ma è unto forte” e il vostro amico non avrà alcun bisogno di maggiori informazioni per orientarsi (e magari pure commuoversi). Questo è un bene? Magari no, se stiamo parlando di 18 episodi - da trenta minuti circa l’uno - che, alla resa dei conti, di ciascun personaggio ci hanno saputo dire una riga a cranio. E qui arriviamo alla sceneggiatura.
Se la sceneggiatura, appunto, mostra chiaramente l’arco narrativo dell’animo del protagonista Tony di stagione in stagione: sempre solo con un cane, costantemente arrabbiato (ma forse forse un filo meno giorno dopo giorno, imprecazione dopo imprecazione), tutti gli altri, soprattutto nella terza stagione, involvono in mere pedine, semplici ingranaggi impiegati a dimostrare la grandezza, la bontà d’animo e i profondi insegnamenti di vita che solo Tony, sarebbe stato in grado di dar loro. Quello stesso Tony che fino a 24 ore prima sputava in faccia a chiunque gli stesse intorno e distruggeva piante grasse altrui perché la vita è ingiusta. Non che non ci sia un grande cambiamento in lui, intendiamoci. Solo che l’ultimo episodio di After Life sbrodola in dialoghi (che ci ricordano a ogni piè sospinto quanto Tony-Ricky sia unico e speciale, fateci caso: non c’è un personaggio che, una volta incontrato, non gli attacchi la pezza della vita dettagliandogli come lui sia un angelo sceso in terra, qualcuno nato per pungolare gli altri, sì, ma allo scopo di farli riflettere e chi riesce a sopravvivere, si ritroverà più forte e in grado di affrontare veramente la vita. Tale overdose di complimenti, porta Tony a definirsi “una specie di vaccino” come fosse la cura a ogni male del mondo. Fortunatamente qualcuno gli risponde, con sarcasmo, “Nah, ricordi più un fastidioso virus”. E viva Dio esiste questo riaggancio a un piano di realtà oggettivo. Perché tutto il resto dei dialoghi è un’ascesa di sbrodolati elogi (a pensarci bene, rivolti allo stesso creatore, regista e sceneggiatore della serie) fino ai minuti conclusivi in cui appare chiaro che Egli sia il nuovo Gesù.
Stando alla larga da spoiler, durante l’ultima scena di questo supposto gioiello di scrittura, regia e raffinato emotainment, Tony-Ricky riesce a crear coppie e proiettar miracoli con la sola imposizione dello sguardo: dove poggia gli occhi, nasce l’amore, la fraternità, il soggetto da lui adocchiato riesce a trovare il pezzo del puzzle che fin dalla nascita (o quantomeno da quella, monocorde, del suo personaggio) si affannava a cercare. La motivazione per cui il nostro protagonista, poi, smette definitivamente di aver voglia di crepare, è debolissima. Non siamo senza cuore, per carità, ma certo non ci aspettavamo, non da Gervais di ritrovarci in una puntata di Braccialetti Rossi. Trovare funzionante questa motivazione, al netto della sensibilità individuale, sarebbe come affermare che si possa, realisticamente, far uscire dall’anoressia una persona dicendole, semplice semplice: “Guarda che mentre tu rifiuti il cibo, i bambini in Africa muoiono di fame”. Non ha mai funzionato per nessuno di noi alle elementari davanti a un piatto di broccoli lessi, figuriamoci che efficacia possa avere, questa sottilissima figura retorica, su un soggetto purtroppo attanagliato da depressione all’ultimo stadio.
Insomma, non che ci fosse da aspettarsi un mirabolante plot twist finale: la storia quella era dall’inizio, l’analisi dell’elaborazione del lutto, tramite ognuna delle sue dolorosissime fasi, tale era, e, per l'appunto, doveva rimanere fino a giungere alla propria inevitabile conclusione. Però che fosse realistica, delicata e allo stesso tempo un filo cinica come l’intera serie si era dimostrata fino a quel momento è qualcosa che poteva e doveva essere preteso. Soprattutto da una mente geniale ed empatica (nonostante gli sforzi per ostentare l’esatto opposto) come quella di Ricky Gervais. Lo stand up comedian cede all’autoreferenzialità e spreca un’occasione d’oro per ridefinire gli standard di come si scrive, gira e recita una serie dramedy con la D maiuscola. Piacerà (e sta piacendo) ugualmente per lo stesso motivo per cui la gente si ostina ad adorare il sentimentalismo dei bigliettini smielati dentro ai Baci Perugina. Per tutti gli altri, quelli forgiati dal fuoco di mille fabiovolate, purtroppo la refrattarietà alla melassa a ogni costo rovinerà il gusto di una serie che poteva essere formidabile e ha preferito surfare sulla mediocrità, quella che non scontenta nessuno ma che allo stesso tempo non può far nemmeno gridare al capolavoro. E da Ricky Gervais non ci si può aspettare altro che un capolavoro. Per accontentarsi della media, del meno peggio, esistono già tutti gli altri titoli in catalogo su ognuna delle varie piattaforme di streaming. Gervais ha scelto di adeguarsi, con ogni probabilità per non correre rischi. E, in fin dei conti, questo è un vero requiem.