Noemi sta acciambellata sul divano, porta lenti sfumate arancioni, è appena tornata dalla palestra. Si presenta come Geeno del Rey. “È il mio alter ego”, dice sorridendo. “C'è Lana del Rey, poi mio nonno si chiamava Gisio, quindi Gino, e c’è questa mia amica che si fa chiamare Gina la Tonica. E allora io sono Geeno del Rey”. Noemi ride di gusto, ha una bella risata. È la ragazza che avresti voluto avere come vicina di banco al liceo, non solo più svelta di te a capire le cose ma pure abbastanza gentile da spiegartele senza farti sentire un idiota. Stiamo per passare un’ora intensa.
Sei reduce dal tour estivo, adesso parti con il Nostalgia Indoor Tour: quattordici date in poco più di un mese con il gran finale a Roma, per la prima volta al Palazzo dello Sport. C’è un po’ di tensione in più rispetto al solito?
«Un po’ di tensione c’è, figurati. Questo concerto al Palazzo dello Sport per me è un bel traguardo anche perché io sono proprio dell’EUR, ci sono passata un bel po’ di volte davanti chiedendomi se ci sarei mai riuscita. Spero di fare un bello spettacolo, adesso sto collaborando con una direttrice artistica pazzesca, Ace Bowerman, che tra gli altri ha lavorato anche con Ed Sheeran. Diciamo che sarà una sorta di level up anche a livello di spettacolo, non solo musicale. Poi a me piace proprio cantare con le persone, mi piacciono i musicisti che suonano… L’energia che si crea nel live secondo me è una roba pazzesca. Diciamo che come musicista soffro un po’ lo studio, a un certo punto lo sento un po’ asfittico. Considera che ho iniziato a cantare con una cover band, facevamo blues e stavamo nei locali, nelle pizzerie».
Come si prepara una scaletta? E il tuo ingresso sul palco, come lo gestisci?
«Prima di salire sul palco tiro un grande respiro perché voglio mettere uno stop a tutto quello che è successo prima. Il respiro ce lo dimentichiamo un sacco, invece ci mette molto in contatto con quello che è il nostro corpo, con le nostre emozioni. Calcola che mia mamma con la meditazione ha superato gli attacchi di panico. Poi beh, lei è anche un po’ contraria alle medicine. La scaletta invece è la cosa più divertente da fare per me, da sempre. Ho imparato a farla soprattutto nel periodo in cui suonavo nelle pizzerie, da quelle parti, perché per cogliere l’attenzione della signora che mangia ti serve una scaletta… scientemente pensata, diciamo così. Quando ce l'ho pronta la faccio sentire a mio marito, che è un bravo musicista e di cui ho molta stima. Poi al mio manager (ride, ndr.) e alla famiglia, agli amici, sto lì a rompere le palle. In genere cerco di farla sentire a persone che non fanno musica, quello è proprio lo step più importante perché magari la sentono con un piacere disinteressato, noi invece ci facciamo mille paranoie. Mi piacerebbe recuperare quell’ascolto là, sai? Detto questo la faccio sentire sempre anche a mio papà, sì. A lui sempre».
Quand’è che hai capito di avere questo dono per il canto?
«Nella maniera meno romantica di tutte! Ero piccola, un po’ nerd… ricordo questa immagine di me vestita coi pantaloncini della scuola calcio, una maglietta del centro estivo di tennis, gli occhialetti, codina bassa… non ero molto cool, diciamo la verità. Però già da bambina cantavo coi miei genitori, mio padre suonava la chitarra è si era accorto che avevo una bella voce. E una volta siamo al ristorante, io ho dieci, undici anni e cè ‘sto signore che suona la tastiera: mio padre mi mette in mezzo e dopo due ore mi convince a cantare una canzone… My Way, credo. E mentre canto vedo le persone che smettono di mangiare e iniziano ad ascoltarmi, alla fine parte pure l'applauso. È stato un attimo, sai?. Ho pensato ‘Ma vedi, allora posso esistere anche io’. Questa cosa di cantare per gli altri, di avere una qualità, di farmi capire… in quel momento, lo ricordo benissimo, ho pensato che non avrei dovuto vivere in silenzio, in quella solitudine. Perché sono sempre stata molto sola, anche se ho sorella con un anno in meno di me non ho mai avuto tanti amici».
Ti senti mai in dovere di fare questa vita perché ne hai avuto l’occasione?
«Allora, delle volte ti senti un po’ in obbligo perché sai di aver esaudito il sogno che per tanti invece è rimasto soltanto lì. Tempo fa sono stata ospite a Io Canto Family e ho incontrato tutti questi genitori a cui sarebbe piaciuto cantare, che avrebbero voluto vivere la musica come la parte più importante della loro vita e non ci sono riusciti. Io mi sento forse in dovere, per i tanti che non ci riescono, di assaporare il momento e non buttare via niente. Delle volte ci penso. Mio padre per primo, lui avrebbe voluto fare il cantautore e poi la vita l’ha portato da un’altra parte, me lo dice sempre: ‘Che bella questa cosa che fa, che al mattino il tuo pensiero è preparare una canzone, scrivere’. Certo, ci sono momenti in cui sei stanco e pensi ‘ma vaffanculo’, perché non è mica il Mulino Bianco e io non mi risparmio. Però per me resta un privilegio gigante, e non perché sia più semplice: perché è quello che volevo fare. E chissà quanto dura».
Sono andato a vedere il video di una tua esibizione a X-Factor, 2009. La seconda edizione, sulla Rai…
«Madonna, su Rai 2. Era il viaggio dell’eroe e noi stavamo lì... un po’ appesi. Non sapevamo bene come sarebbe andata, diciamoci la verità. Stavamo lì a fare questo percorso, che forse a livello artistico era più facile perché si sapeva di meno di come si sarebbe sviluppato. Adesso X-Factor ha tutta la sua liturgia, molto bella, ma noi eravamo i primi ed eravamo anche diversi. Tutta questa cosa dei social ha reso i ragazzi di oggi molto più forti, sgamati, che per alcuni versi è pure meglio anche se forse perdi un po’ di spontaneità. Io sono arrivata che facevo blues e cantavo solo in inglese, invece col lavoro che ho fatto con Morgan - che in quel momento della sua vita era una persona molto diversa - mi sono avvicinata ai cantautori. Li avevo sempre ascoltati, i miei sono super fan di De Gregori, Battiato, Battisti, Guccini, De André… però un conto è ascoltare, un altro è cantare».
Sembra che uno sia un artista più forte se scrive, compone, canta. Tu invece sei soprattutto interprete: come vedi questo tema e come scegli le canzoni? Insomma, come fai a sentire se sono giuste, adatte?
«È vero, oggi c’è tanto questo mito che devi scrivere. Ma chi canta porta il suo. Certo, quando canti ce devi avé un carisma, altrimenti è inutile. Io quando scelgo le canzoni mi confronto molto con gli autori. È come se fossimo in sartoria a fare un bellissimo vestito che però non è prodotto in serie, è un pezzo unico. Poi ci vuole anche un po’ di culo nella vita, non è che scelgo tutto da sola. Uno si confronta, fa sentire il pezzo, magari si innamora. Poi io vado dai musicisti, dagli amici dopo la partita… quello su cui non si può lesinare secondo me è il darsi alla canzone. È questo non si quantifica neanche firmandolo un pezzo, anche perché io credo che alcune canzoni siano nel destino delle persone. Pensa ad Almeno tu nell’universo, che è stato 14 anni dentro un cassetto e all’inizio era quasi una roba sudamericana, una salsa. Quando l’ha cantata Mia Martini è diventata la ballad emotiva che conosciamo. Er cantante, come si suol dire, ha il suo perché. Credo che Mina non abbia mai scritto manco una canzone, questo però non la rende meno incisiva o importante di altri. Lo stesso penso di Nina Simone, My baby just cares for me non l’ha scritta lei. Anche Aretha Franklyn non ha scritto A Natural Woman, l’ha scritta Carole King. Noi ora vogliamo tutti il cantautore, ma non è detto che debba essere solo così. Certo, io alcune cose le ho scritte e altre le ho interpretate, ma anche quando interpreti je dai una forma, molto lo fa il tuo modo di appoggiare le parole. Vasco, quando a scritto Vuoto a Perdere per me, l’ha scritto sul mio modo di appoggiare le parole. È na robba».
Hai una voce potente, ti alleni con Pachy Scognamiglio, eppure buona parte delle hit che adesso sono su Spotify sono registrate con l’autotune. Da una parte lavorare così tanto sulla voce deve sembrarti fatica sprecata, perché poi c’è chi lo fa premendo un pulsante. Dall’altra però immagino che tu riesca a recuperare dal vivo, quando il pubblico sente la tua voce naturale. Come te la vivi?
«Ma guarda, io credo che il tune sia un linguaggio molto nuovo, molto divertente. Quando uno lo mette e si sente è una scelta stilistica, perché sai (ride, ndr) si può anche fare in modo che chi ascolta non se ne accorga! È un colore che si aggiunge, poi giustamente il mainstream lo hanno in mano i ragazzi più giovani che stanno sul rap, sulla trap. Per quanto mi riguarda ci sta anche essere meno di moda e trovare il modo di migliorarsi attraverso le cose che funzionano. Io sono un’amante della prima ora del rap, ho sempre amato la hip-hop culture: ricordo Neffa, le prime cose di Fibra, Joe Cassano… quella roba mi è sempre piaciuta. E mi piace che la cultura hip-hop sia entrata forte nel sound italiano perché è bella questa possibilità di avere produzioni veramente soul».
E infatti il tuo ultimo disco, Nostalgia, è pieno di suoni e influenze diverse. Però, però… I cantanti italiani spesso hanno studiato, al contrario dei rapper che difficilmente sono stati a scuola di canto. Loro però si espongono spesso su temi sociali e politici, mentre il cantante italiano lo fa raramente. È come se da una parte ci fosse quello che ha studiato studia ma non parla, dall’altra quello che non studia ma si espone. Tu come la vedi?
«No, no. Credo che esporsi sia una parte importante del fare il cantante. Poi sai, delle volte uno si stanca anche di sentirsi sfruttato dalla politica. Io ricordo di essermi esposta sul palco di Sanremo perché ero per il matrimonio gay nel 2018, quando in Parlamento si discuteva della legge per le unioni civili. Quella volta, sulla Rai, ho messo i nastri colorati del movimento LGBT sul microfono: per me era importante dare la possibilità a persone che si sono amate tutta la vita di poter esistere a livello civile, senza pensare che uno dei due potesse finire in ospedale e l’altro - magari dopo venticinque anni insieme - non potesse far parte di quel momento, non potesse esserci. E questa è una roba innegabile, trasversale. Poi la politica… insomma, un po’ finisce che ti sfrutta. Nei temi importanti secondo me è giusto esporsi, esserci. Per il resto non è vero che i rapper non studiano la musica, sono più lavoratori di quanto si possa pensare perché tirare su delle rime serie e dire veramente qualcosa è complicato. Ma poi vabbè, io c’ho il mito di Fibra, mi piace il modo in cui ha sempre parlato di tutto cercando di raccontarci qualcosa, nel bene o nel male, anche con una risata amara».
Allora te lo chiedo: in che canzone di Fabri Fibra ti piacerebbe duettare?
«Oddio! Vabbè, aspetta… ce ne so talmente tante! Ma se ti dico le mie preferite... sono super hardcore. Una delle più fighe secondo me è Solo una Botta, che me fa' troppo ride».
Sarebbe clamoroso, dai!
«Mi fa troppo ridere perché è il racconto tragicomico di lui che voleva solo divertirsi e invece gliene succedono di ogni. Però mi piace quella roba là, il Fibra di Mr. Simpatia. Poi sai, ha fatto talmente tanta roba e abbracciato così tanti generi. Stavo Pensando a Te ad esempio, che è una roba super pop, secondo me ha dentro anche Battisti. E non credo sia una cosa facile da fare. La stessa cosa Neffa: io ci sono stata in studio con Giò e quello sta lì, pensa, si fa i suoi viaggi, i suoi voli. Anche quello che ha fatto Sfera non è stato così semplice. Io poi sono una drama queen eh, tutte le mie canzoni sono (facendo il vocione, ndr) sull’emotività, sulla consapevolezza».
A proposito di consapevolezza, in una lunga chiacchierata che hai fatto con Giacomo Poretti c’è un momento in cui parli di body positivity. Dici che a volte si rischia di fare il giro, di fare male alle persone: è giusto farsi accettare per ciò che si è, meno lasciarsi trascinare dall’idea di non potersi migliorare o di non doverlo fare perché bisogna avere positivity.
«Stare bene mentalmente e fisicamente è la base di tutto. Il tema dell’inclusività è bellissimo e quando ero piccola io era molto diverso. Però, però… adesso sta succedendo il contrario e se lavori su te stessa magari vieni criticata. Credo nella libertà personale e credo che essere una persona in salute sia fondamentale. Poi è bellissimo lavorare su sé stessi, io quando mi sono guardata e ho visto di essere la persona che non volevo essere mi sono messa al lavoro ed è stata dura: amo mangiare e mi sono messa a dieta, ho cominciato ad andare in palestra… è una rottura di maroni, pensi "studio piano e voce e me tocca fa ‘sta roba", però si fa. Secondo me è un tema importante. E voglio fare anche un po’ la vecchia trombona».
Ma certo.
«Oggi il tema del sacrificio è visto male. Se mi voglio comprare una cosa giustamente vado su Ämazön e arriva il cörriere (lo dice con le vocali chiuse, come lo direbbe chi siede su di un divano del Settecento, ndr), se voglio mangiarmi una cosa e vado di delivery. Secondo me dovremmo un po’ rinverdirla ‘sta cosa del sacrificio, perché magari all’inizio le cose vengono facili e sei portato, però prima o poi ce devi lavorà e spesso il sacrificio è visto male. Questo secondo me è un tema che dovremmo un attimo rivedere prima di trasformarci in dei vermoni che stanno tutto il tempo sdraiati a non fare niente. Te lo ricordi quel film? Della Pixar, forse? Vabbè, c’è questa società futura in cui tutti si muovono su dei triclini… Wall-E! Ecco, non vorrei che diventassimo così, con le macchine che fanno tutto per noi mentre qui pensiamo solo a sopravvivere. Bisogna un po’ sacrificarsi, non è mica una cosa brutta. Senza farsi sfruttare eh, perché è vero anche che questo mondo del lavoro è molto precario, con ‘sti cavolo di stipendi che non si alzano… le persone hanno le loro ragioni, però se possiamo fare un sacrificio che ci torna utile nella nostra vita, un po’ come cucinare per poi mangiare bene, perché no?».
In questi giorni si è parlato molto di donne spogliate con l’intelligenza artificiale, di deepfake, probabilmente da qualche parte ci saranno anche tue foto o video generati con questi programmi. Tu hai passato molto tempo a capire il tuo corpo: che idea ti sei fatta di questa storia?
«Il problema non siamo noi, perché noi siamo grandi. Se mi succede mi faccio una risata, anche perché essendo un personaggio pubblico… io posto le mie foto e ci sta che magari uno prenda la mia faccia per farci chissà che. Proprio per questo però secondo me i bambini non andrebbero postati, dovrebbero studiare una legge per evitare che stiano online. Perché pare il Far West, dove bastava possedere una pistola per fare una strage e diventare sceriffo. Sarebbe bellissimo dare adito al tema dell’identità digitale e regolamentare questo mondo dove tutto diventa possibile. Se una ragazzina di 16 anni posta la sua foto su Instagram e qualcuno prende la sua faccia per fare un video porno con l’intelligenza artificiale… immagina i danni psicologici che una cosa del genere può provocare a lei, è roba che non va più via. Bisognerebbe che lo Stato, ma pure l’Europa, cominciassero a dettare delle regole».
Non dai risposte banali.
«Sono tutti argomenti che mi appassionano. Poi io non ho figli, per carità. Magari però uno decide di non farli perché a vedere questo mondo così si prende male e pensa alla pressione che dobbiamo sostenere: devi essere sempre bello, sempre perfetto…se ti bullizzano devi essere più forte di loro anche quando arrivano fino al tuo cellulare, quando sei in camera tua. Io da bambina venivo bullizzata, poi però quando tornavo a casa e chiudevo la porta di camera mia stavo lì, col mio pianoforte, e mi allontanavo da quelle cose. Quel ragazzino, Paolo, si è suicidato. E a scuola non l’ha difeso nessuno, poveraccio».
C’è qualcosa a cui vorresti dedicare più tempo nella vita che fai?
«Fammici pensare… Forse vorrei stare di più con i miei amici. Io sto sempre in giro… Sai, vivo tanto per la musica perché comunque è una grande opportunità, però vorrei assaporarmi di più la lentezza, avere tempo per annoiami. Siamo sempre da qualche parte, sempre attivi. Vorrei avere il modo di sentire il tempo lento, talmente lento da farmi dire che mi annoio, di sentire il mondo, la calma. O, come si dice a Roma, vorrei il tempo per farmi i cazzi miei, insomma (ride, ndr)».
Cos’è per te il denaro?
«I soldi… sono un buon modo per dire di no agli stronzi».
I famosi fuck you money.
«Ma sì. I soldi non devono essere un fine, sono un grande mezzo. Puoi realizzare dei viaggi bellissimi, dei sogni… però non devono diventare un pensiero oppressivo. Con il lavoro che faccio sono abbastanza serena economicamente e questo mi permette di concentrarmi sulla musica, che è quello che voglio».
So che sei molto credente, come vivi questo tempo?
«Lo so che non è molto cool! Però dirò una cosa: tutte le grandi cantanti hanno iniziato a cantare in chiesa: Aretha Franklin, Whitney Houston, Beyoncé… Forse perché cantare ci collega un po’ a quello che c’è oltre. Poi a questa cosa puoi dare il nome che vuoi, io non è che so fan di una religione: sono nata con la religione cristiana e quindi vivo quella. Ma quando canto sento di emozionarmi molto, mi faccio proprio dei film. E questa emozione che sento credo venga da quello che c’è dopo, da quello che ci unisce, che ci rende parte del tutto. Io sento fortissima questa cosa».
Stai dicendo che cantare ti avvicina a Dio.
«Perché è un’emozione forte, proviene dal modo di sentire quello che stai raccontando. La musica, la musica deve trascendere. Cerchiamo di fare un salto verso quello che c’è sopra di noi e che non vediamo, non sentiamo. Ci sono dei testi che hanno fatto questo, penso ad esempio a Generale di De Gregori, che racconta la guerra in una maniera e con delle immagini che ci arrivano fortissimo anche adesso, cinquant’anni dopo la sua uscita. Quello è il compito della… e mi dispiace, perché ci stiamo fissando su una serie di cose inutili, tipo “quanto sei intonato”. Non è quello, ce frega ’n cazzo di quanto sei intonato. La musica deve trascendere».