“Sono tutto fatto, devo prendere dell’acqua”: Francesco Sarcina ha una giacca in pelle nera, un dolcevita nero, pantaloni anni Settanta neri, stivali a punta neri e orecchini da pirata, d’argento. Ride. Il tipo è una rockstar, niente di meno. Per come parla, per come si muove. Per l’impatto che ha sulla gente che lo circonda. Mai, cresciuto sentendo Dedicato a Te su MTV e godendo del remake fatto da Elio e le Storie Tese, Shpalman, avrei pensato di conoscerlo così, buttando giù shot di whisky (io, lui rum) fuori dal Teatro Lirico di Milano per carburare il nostro karma in attesa dell’unica data italiana dei Queens of the Stone Age. Con lui c’è anche il batterista de Le Vibrazioni, Alessandro Deidda, sputa palline di conoscenza sul rock e si produce in freddure buone per i libri di Francesco Totti: un personaggio meraviglioso. Consiglia di ascolatare i Father of Peace, che sto tenendo in alta rotazione da un paio di giorni
Sarcina, che ad un certo punto riesce a comprare una bottiglia d’acqua naturale, di quelle in vetro da ristorante, non è veramente fatto, è solo mediamente ubriaco. Si commuove quando vede arrivare, su di un motorino, cantante e batterista dei Les Votives, dice che si rivede un po’ in loro comincia a dargli le dritte che può, è un bel momento. Il concerto comincia alle 20.30, buchiamo tutto lo show della cantante australiana in apertura e ci presentiamo in poltronissima sulle 21.25: giornalisti invitati pochi, influencer manco uno. La prossima volta che volete farvi i selfie a un concerto esclusivo non andate in terrazza da Lady Gaga al Forum, venite al Giorgio Gaber: Josh Homme fuma sigarette di cui ti arriva l’odore e se parla senza microfono lo senti bene lo stesso.
Il concerto è micidiale. I Queens of the Stone Age - che Deidda chiama qui non sto a mio agio - sono una delle ultime vere rock band del pianeta. Il frontman è una delle ultime rockstar, del pianeta. Sul palco e nella vita. Alive in Catacombs ne è l'ennesima prova: dopo aver demolito impianti per vent’anni Homme e compagnia hanno messo in piedi uno show con tracce riarrangiate, più melodico ma non acustico, nato per omaggiare le catacombe di Parigi e finito a girare il mondo diventando uno spettacolo intimo, violento come sempre e dolce come mai prima. Roba che può tornarti utile per addormentare i bambini e una traccia più avanti per guidare una carovana di invasati nei deserti di Mad Max.
Lo spettacolo comincia tra il frinire delle cicale. Homme arriva dalla platea, passa tra il pubblico fra gli applausi, lancia uno sgabello sul palco ci sale con il sipario ancora calato. Comincia a muoversi in quei quattro metri di spazio con una una lampada da lavoro elettrica in una mano e il microfono nell’altra. Sembra una citazione ad un rocciosissimo Tom Waits in concerto, ma c’è pure un qualcosa del nano di Twin Peaks per come passeggia sul palcoscenico danzando, una carezza a quella dimensione onirica e crepuscolare tra la vita e la morte. Ogni tanto fa qualche mossa alla Cremonini, una collega a fine serata dirà di aver visto le movenze di Olmo (Fabio De Luigi a Mai Dire Gol) nel corpo di un Dio greco. Può essere, di certo è stata ipnosi e a me ricorda molto David Lynch, anche come fisionomia. Dopo quattro, cinque tracce - quando, cioè, eravamo ormai totalmente rapiti dallo show - si alza il sipario e appaiono i musicisti. Non i componenti della band, proprio i musicisti. Una decina in tutto, tra archi e tastiere e percussioni e chitarre e bassi. A volte è un pugno in mezzo agli occhi, altre una carezza. Gli arrangiamenti sono profondi e raffinatissimi, un calcio in culo senza diritto di replica a chi pensa che sotto a un palco si stava meglio quando si stava peggio.
A tratti Mr. Homme scende tra il pubblico e ti canta in faccia. Sa di averci in mano, ci gode, a tratti si mette a parlare, fa piccole confessioni. Sentiamo pezzi iconici, un inedito e un aerodinamico Michael Shuman in completo di pelle cantare Auto Pilot. Funziona. Josh per un bel pezzo gira con una mannaia in mano che a un certo punto finge di tirare addosso alla gente. Tra un pezzo e l'altro scivola, fa volare questa lama come fosse un giocoliere, la sbatte su di un tavolo,ci parla come fosse il teschio dell'Amleto. È come se fosse la vita, che finirà per conficcare nel parquet squisitamente milanese del Teatro Lirico.
Il pubblico è micidiale, stralunato e totalmente eterogeneo. Ragazze con l’appartamento in Brera pettinate da bambole e signorini in bolo tie Prada incrociano gli sguardi di gente in costume, tra cui una coppia di eleganti signori in anticipo per Halloween: lui con una bombetta in velluto nero su cui erano state incollate delle ossa finte e lei, la sua signora, in completo Morticia Addams con tanto di maschera. Nel mezzo di tutto, dall’uomo dei fumetti dei Simpson ai ragazzi del liceo. I prezzi dei biglietti non erano certo democratici, eppure evidentemente c’era più di qualcuno disposto a mangiare le proprie unghie fino a fine mese per questo evento. E a ragione, per altro. È sembrato di vivere in uno di quei racconti di qualche vecchio stronzo che i concerti se li è fatti negli anni Settanta, il tipo che ti racconta di quella volta che ha visto Jimi Hendrix suonare nel pub in cui andava a ubriacarsi in un mercoledì pomeriggio qualunque. Noi abbiamo visto i QotSA a teatro, bellezza.
Dopo quasi due ore di show, i ragazzi ringraziano e si producono nel più classico balletto: applauso, saluti, uscita e poi dentro di nuovo per qualche parola di commiato e una versione a cappella di Long Slow Goodbye che cantiamo a bassa voce da sotto al palco, perché nel frattempo abbiamo lasciato le seggiole per stare più vicino al palco.
Il concerto è finito da dieci minuti quando mi telefona un’amica per dirmi che forse riesce a farmi entrare nel backstage: corro a cercare l'ingresso artisti, che trovo dietro al teatro assieme a un nuvolone di gente che aspetta l’uscita della band. La porta, che fa le veci del più classico degli ingressi sul retro, è sorvegliata da un imperturbabile uomo della sicurezza. Mi porto tra le prime file producendo una sequela di insulti e rimango lì, ad aspettare che succeda qualcosa. Lei dice che qualcuno verrà a prendermi, invece niente. Passano cinque, dieci minuti. Nulla da fare. Qualcuno rinuncia, qualcun altro viene mandato via da chi sta caricando il camion con gli strumenti perché questa fiumana blocca la strada. Succede, finalmente, che la porta viene aperta da un uomo in divisa antisommossa che mi chiama per nome: “Cosimo?”. È un grande momento. Salgo tre piani di scale correndo e sono nel backstage.
Immaginare i Queens of the Stone Age suonare in teatro come se lo avessero sempre fatto è difficile, eppure immaginare il loro backstage è nettamente più complicato. Luce bianca, tavolo da sagra ma in plastica, pizze da asporto e birra fresca. Tra musicisti, giornalisti e qualche amico italiano saremo una ventina di persone, mentre i ragazzi sono in camerino a espletare le funzioni corporali di ogni rockstar, o almeno è questo che immaginiamo. Aspettiamo che arrivino in un’atmosfera leggera che ricorda un po’ le feste in patronato. Sarcina è tra i primi ad andarsene, lo fa con grande eleganza. Il tempo viene scandito da casse di birra che entrano, amici che rinunciano e tappi che saltano.
Ho in mano una Moretti da 33 quando mi vedo comparire a fianco Michael Shuman in canottiera bianca. Facciamo due battute veloci, anzi velocissime. Lui sembra essersi divertito e sa di aver fatto qualcosa che ricorderemo a lungo, ringrazia per i dovuti complimenti e sparisce. Più tardi ci diranno che Josh è praticamente nudo ma soprattutto troppo stanco per passare a stringerci la mano, così ci prendiamo le ultime birre e finiamo a bere l’ultimo in un locale fuori dal teatro. Lo capisco, anzi lo capiamo tutti noi che siamo lì ad aspettarlo: quest'uomo si è svuotato dell’anima da un palco e ce ne stiamo portando a casa un pezzetto.
