Non sono mai stato un amante di Cesare Cremonini. Sospetto che questo abbia a che fare con gli anni delle elementari, quando a me piacevano le compagne di classe e a loro piacevano i Lunapop. E poi io sentivo il rock, la roba che mi passava mio zio col masterizzatore, un attrezzo costosissimo regalatogli dalla sua compagna: avevo i dischi di Nirvana, Ska-P, Queen, Ramones. A dieci anni giravo con una felpa dei Pantera e i dischi che mettevamo nel walkman erano come i post che oggi mettiamo sui social: roba che ti piace, selezionata con attenzione e con cui vorresti essere identificato. Cesare Cremonini era da poster del Cioè, io avevo Appetite for Destruction. Lui con quella sua voce arrotondava gli spigoli che io tentavo di affilare, fuori luogo come una carezza quando vuoi fare a botte.
Eppure pezzi come 50 Special e Qualcosa di Grande hanno portato nella mia vita, e credo anche in quella di molti altri, concetti enormi legati alla musica che mi accompagnano ancora: la potenza di una hit, l’idea del tormentone asfittico ma rassicurante, le canzoni generazionali e poi il meccanismo del guilty pleasure che oggi sfoggiamo come dei piccoli intellettuali e che da bambini eravamo troppo puri per accettare. Passa il tempo, i Lunapop si sciolgono e cresciamo un po’ tutti, Cremonini più di tutti.
Le canzoni sono ancora morbide, a volte troppo: un tripudio di miele su velluto, gelato alla vaniglia, rum caldo, coccole, zucchero filato. Roba sensibile e dolce che non va bene per presentarsi alla guerra che è l’adolescenza.
Cresciamo ancora. Cremonini è tra i più grandi performer italiani sul palco e nella vita una rockstar, uno che vedi più spesso con gli occhiali scuri che senza. È ancora morbido, anche se l’intensità con cui canta, ma soprattutto scrive, comincia ad arrivarmi. Mi travolge quando ascolto l’intervista di quasi due ore che ha appena rilasciato a MigBabol, probabilmente la storia più intensa che abbia sentito quest’anno. Andrea Migno è come un Gianluca Gazzoli potenziato: mette l’ospite a suo agio, lo lascia parlare e si gode il momento, ben lontano dall’idea di dover trovare la notizia o il titolo o l’argomento. Che tanto poi arriva tutto da solo.
Cesare parla di tutto quello che conta con una lucidità di pensiero, una velocità e una proprietà lessicale da far impressione. Sa cosa dire, come dirlo, come farsi capire e, soprattutto, lo fa con concetti mai banali. Dice che una grande canzone ha bisogno di una punta di ambiguità per funzionare davvero, in modo che sia l’ascoltatore a completare le frasi e a costruirci qualcosa attorno, dentro. Un po’ come i mobili dell’Ikea, a cui ti affezioni perché a montarli sei tu. Parla della sua definizione di artista, che (“secondo me, in questo momento”, aggiunge) è colui che riesce a superarsi, ad andare oltre. Racconta che il suo lavoro sta tutto nel gestirsi, preservarsi e non perdere la magia, è convinto che sia così per tutti. Parla del senso della vita, almeno la sua. Parla del linguaggio, della musica e dell’arte, di ciò che rimane e della poesia. Di Lucio Dalla e di Vasco Rossi.
Parla tanto di sport, partendo da quello che è stato Roberto Baggio e arrivando al gol di mano di Maradona, arrivando a dire tutto quello che conta tra Valentino Rossi e Marc Marquez. Mette in fila le parole con una precisione micidiale, svela di aver scritto e performato sempre da lucido e di aver sempre smesso di esserlo immediatamente dopo, alcol e feste. Chiede di fare attenzione nel distinguere il rock dal rock n’ roll di Elvis e Chuck Berry.
È una bufera di filosofia. Uno a cui vorresti telefonare la sera, con cui vorresti bere del vino. Lavorarci assieme dev’essere bello e snervante in misura più o meno uguale. L’ego di Cremonini esce dallo schermo e la sua dedizione all’arte fa altrettanto, motivo per cui viverci assieme potrebbe risultare complicatissimo per chiunque: ti abitui a un altitudine e a una velocità da cui poi è sempre doloroso scendere. Finisce che a sentirlo parlare così per due ore ti viene da pensare che uno così non doveva fare il cantante. Oppure, che forse è più corretto, pensi che fare il cantante sia il mezzo che ha trovato per ragionare sulla vita e le sue storture.
Oggi mia figlia ha dieci anni, più o meno l’età che avevo io quando i Lunapop cambiarono l’Italia con delle canzoni scritte sul banco. A lei, che magari Cremonini lo ascolta quando ceniamo assieme, i Lunapop sarebbero piaciuti, magari mi avrebbe chiesto di portarla a un concerto. Sarà che le femmine ci arrivano prima. Il poster, ci fosse ancora il Cioè, stavolta mi farebbe sorridere, di certo il faccione di questo cantante bolognese sarebbe ancora lì dopo 25 anni. Oggi che carezze e poesie facciamo fatica a trovarle intorno a noi magari porterò mia figlia a un concerto. Dicono sia un performer straordinario, anche se per me è più vicino a Carmelo Bene che a Freddie Mercury.