C’è revival e revival. Nostalgia e nostalgia. Chi viveva su questo sporco mondo nel 1999 – e ci rimase anche nei due/tre anni successivi rimandando quel tanto sognato viaggio su Plutone – non può che ricordare gli Eiffel 65 e la loro onnipresente “Blue”, con quel “da ba dee” tutto distorto che ci inseguiva su per le scale mobili di un centro commerciale, in una sala d’attesta, in un autogrill, in una discoteca. Ovunque ci fosse gente, massa. Solo che quel pezzo – Eurodance dopo che l’Eurodance pareva aver esaurito il suo primo vertiginoso viaggio sulle auto superveloci di Datura, Dr. Alban, Ice MC, Culture Beat e chi più ne ha… – non mollava davvero mai. Era oltre il tormentone. E infatti ci tormentava. Grazie al cielo, va detto, gli Eiffel 65 erano qualcos’altro rispetto a “Blue”, una macchina da hit meno improvvisata di quanto si potesse credere affidandosi a quell’unico pezzo che imperversava anche all’annuale festival dei sordi.
Nati come progetto musicale nel 1998 negli studi della torinese Bliss Corportation (ma i tre si conoscevano dai primissimi anni del decennio), gli Eiffel 65 (Gabry Ponte e Maury Lobina sono rispettivamente dj e musicista; Jeffey Jey la voce) sono il classico “prodotto pensato per spaccare tutto”, e lo diciamo senza ironie né spirito inquisitorio. Un carrarmato tritatutto come la dance nostrana di quegli anni, su cui si investiva (tanto), esigeva. Progetti commercialmente ambiziosi, ben congegnati, in cui si cercava di associare “brains & looks” (come avevano saggiamente suggerito i primi Pet Shop Boys) per prendersi le giuste “opportunità” e “fare un sacco di soldi”. Cosa che riuscì agli Eiffel, non solo grazie a “Blue”, ma a tre album: “Europop” (1999), “Contact!” (2001) e l’omonimo del 2003. “Move your body”, “Too much of heaven” e il trittico italiano dell’ultima fase, “Viaggia insieme a me”, “Quelli che non hanno età”, “Una notte e forse mai più”: queste le hit, intoccabili, di un trio che per un lustro ha viaggiato sulle ali di una popolarità incontrollabile e contagiosa.
Lobina, per i 20 anni di “Blue”, dichiarò, limpidamente: “Dopo un momento d’oro la musica dance/house era in un periodo di saturazione, le produzioni tendevano ad assomigliarsi e raschiavano il fondo del barile – ormai vuoto – di quel sound. Volevo distinguermi, ecco perché l'idea di produrre una vera e propria canzone pop di ispirazione anni ‘80 su una base dance minimale, con l’utilizzo di un vocoder e un testo che fosse sia slogan che un messaggio universale. Non volevo le solite frasi da club o un testo che parlasse d’amore”. E infatti “Blue” parlava (bene) di niente (o tutto). Stasera, all’Alcatraz di Milano, gli Eiffel che festeggeranno gli anni ’90 saranno ancora due. Gabry Ponte, uscito dal gruppo nel 2005 prima che gli Eiffel 65 mutassero in Bloom 06, non è mai davvero tornato a casa: “Con Jeffrey – ha dichiarato qualche mese fa al Fatto Quotidiano – siamo rimasti in ottimi rapporti, Maurizio non mi parla da un sacco di anni ma gli voglio bene lo stesso”. Pure divergenze artistiche e nulla più, verrebbe da credere, stando alle dichiarazioni ufficiali, solo che gli Eiffel 65, per qualche anno, sono stati una funambolica scommessa (vinta) che ha cambiato la vita (artistica ed economica) di chiunque ne sia stato coinvolto. Facile credere che attorno alle sorti di quel marchio che stasera farà ballare una generazione ci sia stato un bel contendere. Vabbè, nulla di nuovo sotto il sole. Con una certezza nuovamente acquisita a piè di pagina: se scolpisci il corpo della pop music (anche per un tempo breve), la gente non ti dimentica.