Che rapporto c’è tra musica e cinema? Quanto contano i numeri nei due ambienti? E le piattaforme? Che importanza ha il marketing nel successo di Liberato (Il segreto di Liberato di Francesco Lettieri è in sala)? Dopo aver intervistato Demir Ivic, abbiamo chiesto delle risposte anche a Frankie hi-nrg mc: i due hanno da poco lanciato il loro podcast su Cinecittà, intitolato Cinecittadini. “Anche il cinema si basa in maniera compulsiva sui risultati e sulle presenze in sala”, ci ha detto il rapper. Una dipendenza, quindi, che accomuna industria musicale e cinematografica. Sui finanziamenti, invece, si auspica dei cambiamenti che tengano conto anche degli altri settori: “Un po' mi spiace che di tutte le arti esclusivamente il cinema possa beneficiarne (del tax credit, ndr), perché anche la musica e il teatro avrebbero bisogno di quel tipo di sostegno”. Ad ogni modo, vede un futuro positivo per il cinema italiano e per Cinecittà, che tornerà a essere un luogo ambito anche per i giovani. Le produzioni di qualità, infatti, stanno ripopolando gli studios italiani. E Liberato? “È una bella musica, ma non so quanto nuova sia”, ci ha detto, date le radici profonde della sua musica nella tradizione napoletana. E c’è un altro artista napoletano che Frenkie vorrebbe vedere nel biopic del futuro.
Frankie hi-nrg mc, è uscito il docufilm di Francesco Lettieri su Liberato: come consideri l’immagine di questo cantante, la costruzione del suo personaggio?
Il problema è che tante persone sono affascinate dall'idea che dentro i caschi dei Daft Punk ci sia Tizio o Caio, che quell'opera sia stata realizzata non tanto da Banksy quanto da altre persone. Questo è un approccio un po' provinciale all'arte, secondo me. Cioè chi sceglie di avere un “nom de plume”, chiamiamolo così, fa una scelta che non deve rappresentare il prodotto in sé. Bisogna capire se quelle opere su quei muri o quei beat siano validi, facciano ballare, emozionino. Quindi per me il fatto che non si conosca l'identità di Liberato è assolutamente ininfluente, non mi interessa. Alcuni dei suoi brani mi piacciono parecchio, altri no. In generale l'immagine, l'estetica delle sue operazioni mi piace, la trovo molto efficace. Magari Liberato è Lettieri stesso (ride, ndr).
Secondo te la sua musica ha davvero qualcosa di nuovo?
È una bella musica, ma non so quanto nuova sia, perché riecheggia tanta Napoli. Mi sembra anche evidente che il marketing è uno dei motivi che ha spinto Liberato a fare musica, perché è cosciente dell'ambito nel quale si sarebbe trovato a operare, complici anche determinati marchi che erano proprio alla ricerca di operazioni da poter trasformare in un asset. È chiaro che c'è anche quella attenzione e che tuttora stiano lavorando in quella direzione. Ogni 9 maggio da anni a questa parte ci si aspetta qualcosa da Liberato.
Però ci sono modi intelligenti di fare marketing, anche coerenti con la propria estetica di artista.
È un'operazione studiata molto bene, che dentro ha anche dell'arte di qualità. Purtroppo, però, si è portati a definirla appunto come un'operazione. Può uscire un disco di Liberato, ma deve essere comunque contornato da un live mascherato o da un volantinaggio a bassa quota. Necessariamente deve essere corredato da altri elementi che generino o confermino le aspettative del suo pubblico.
Passando invece al cinema e al vostro podcast, Cinecittadini: Damir Ivic ci ha detto che secondo lui la musica è molto legata ai numeri, allo streaming, ai risultati, mentre nel cinema questa ossessione è meno forte. Sei d'accordo?
Non troppo, perché anche il cinema si basa in maniera compulsiva sui risultati e sulle presenze in sala, al punto che se non si raggiungono entro il primo weekend di programmazione determinati risultati di un benchmark che i produttori si sono dati, il film viene immediatamente ritirato. I numeri sono fondamentali. Il mondo del cinema poi è superiore a quello della musica in termini di denari coinvolti e di denari mossi, quindi sono tutti super attenti e condizionati dai risultati. In realtà purtroppo anche in questo ambito si traffica più con i numeri che con le emozioni.
Comunque un cambiamento in positivo l’hai notato?
Il cinema italiano negli ultimi dieci anni ha avuto un notevole impulso. Tante persone sono tornate al cinema per vedere film italiani, cosa che invece in precedenza succedeva quasi esclusivamente in occasione del Natale. Invece adesso sono tanti gli artisti che si sono avvicinati alla regia. Per esempio ai David di Donatello c’erano molti esordienti. C'è Margherita Vicario che è una brava musicista e che ha fatto un film (Gloria!, ndr) di cui tutti mi hanno parlato benissimo. Anche Marco Bellocchio l’ha elogiato. Avere un mostro sacro come lui che dice bene di un film nato da una non regista, che comunque è una ragazza dalla grande sensibilità e talento, è una cosa molto positiva.
Voi avete parlato non solo con i registi, ma anche con le maestranze che fanno parte del mondo del cinema: proprio perché i film non sono prodotti dal risultato garantito, il tax credit ha un ruolo fondamentale.
Non abbiamo parlato in maniera così specifica di un elemento così tecnico come il tax credit, che sicuramente è uno strumento molto utile che incoraggia la produzione cinematografica e la sostiene. Mi viene da dire che un po' mi spiace che di tutte le arti esclusivamente il cinema possa beneficiarne, perché anche la musica e il teatro avrebbero bisogno di quel tipo di sostegno. In altre nazioni europee le arti vengono sostenute molto meglio dai rispettivi Stati. Soprattutto il teatro è uno dei degli ambiti che più subisce la miope e provinciale formazione culturale italiana, la quale prevede che quando si parla di finanziamento al teatro ci si debba riferire esclusivamente al mondo della lirica che per costituzione, per formazione insita nel genere, richiede particolari investimenti. È inevitabile che servano più fondi per la realizzazione e la messa in scena di opere di quel tipo. Alla fine poi i teatri vengono frequentati da persone mature e troppo poco da giovani.
Fuori dall’Italia è diverso?
Faccio solo un esempio: adesso mi trovo a Londra e ieri sera sono passato nella zona di Covent Garden, che pullula di teatri, ma in fila c'erano molti più giovani che adulti.
In passato arrivare a Cinecittà era l’ambizione di molti ragazzi. Secondo te è ancora così?
Sta tornando a esserlo, tanti giovani hanno ricominciato a guardare anche a Cinecittà come uno spazio ideale per la loro espressione artistica. Sono molti i giovani che insieme a Damir abbiamo incontrato e intervistato in vari settori del cinema, dai dipartimenti di scenografia a quelli dell'audio a quelli più squisitamente organizzativi che curano gli aspetti economici e burocratici della macchina cinema.
Cinecittà come la vedi tra dieci anni?
Io la vedo cambiata in meglio, mettiamola così, perché il trend che negli ultimi anni ha investito gli studios dà una prospettiva veramente eccellente, cioè li vedo tornare in maniera ancora più vivace a certi passati fulgori che tutti ricordiamo. Sono diventati competitivi, mettono a disposizione degli strumenti all'avanguardia e un know-how che ha radici profondamente fissate nella nostra storia. Poi conoscono la tecnologia, la usano e la applicano utilizzando strumenti estremamente all'avanguardia. Il fatto di avere dei falegnami capaci di costruire con le proprie mani e il proprio ingegno scenografie pazzesche, e che parallelamente possano avvalersi di macchine per il controllo numerico di ultima generazione mi sembra una sintesi eccellente. Il fatto che ci sia il virtual set più grande d'Europa in Cinecittà è significativo: quando ci sei dentro è straordinario, perché basta premere un pulsante e improvvisamente il mondo che hai intorno cambia. Gli investimenti che hanno fatto e che stanno facendo stanno spostando Cinecittà in una posizione di privilegio rispetto ai vari competitor in giro per il mondo.
Tra gli interventi nel podcast c’è anche quello dell'amministratore di Cinecittà, Nicola Maccanico, giusto?
Sì, devo dire che ha fatto e sta facendo un lavoro eccellente in termini di riassetto, cioè il prodotto Cinecittà ha dei nuovi riflettori che gli proiettano addosso una nuova luce. Nel momento in cui noi realizzavamo il podcast ed eravamo in giro a fare interviste, simultaneamente c'era in uno studio Luca Marinelli che stava finendo di recitare in M tratto dal romanzo di Antonio Scurati; c'era Luca Guadagnino con Queer, per il quale sono stati installati quattro set giganteschi con una giungla, con un pezzo di città del Messico degli anni Cinquanta, qualcosa di veramente notevole; c'era Anthony Hopkins in They Will Die, una serie in costume sui gladiatori. Tutte produzioni enormi, costosissime, piene di attori talentuosi, di scenografie sublimi. Hanno anche riaperto il settore sviluppo della pellicola, che era chiuso da anni: è l'interesse per questo tipo di risorse che ha fatto sì che riaprissero un settore così utile e fondamentale per il linguaggio cinematografico.
Di questi progetti che hai visto nascere qual è quello che ti affascina di più?
Delle produzioni che abbiamo intravisto quella che più mi incuriosisce è sicuramente M perché utilizza questo virtual set di cui parlavo e lo fa in una maniera molto intelligente. Per quel poco che ci è riuscito intravedere è veramente straordinario: abbiamo visto un utilizzo non tradizionale di una scenografia, gli schermi sono stati usati con un’attenzione artistica. C'è un lavoro diverso, molto punk, mi viene da dire, non riesco a definirlo in altro modo, e quindi con quel tipo di aggressività visiva che è funzionalissimo alla narrazione di una storia che è fatta di aggressione.
Il musicista che vorresti vedere al cinema?
Probabilmente Pino Daniele, avere un racconto della sua storia declinato in pellicola secondo me meriterebbe.