Vinicio Marchioni lo conosciamo bene. Al cinema, a teatro e in televisione è stato diretto dai più grandi Maestri, solo per citare qualche nome: Castellitto (padre e figlio), Stefano Sollima, Liliana Cavani, Paolo Virzì, Luca Ronconi e Antonio Latella. Impossibile tenere conto di tutte le sue esperienze sul piccolo, grande schermo o sul palcoscenico. Boris Sollazzo qualche giorno fa ha scritto di lui: “Vinicio Marchioni spesso non protagonista al cinema e capocomico, protagonista e regista a teatro”. Ebbene sì, il critico ha perfettamente ragione, Vinicio migliora la cultura del Paese con la poesia, ma a volte si ha come l’impressione che il suo enorme potenziale, di cui questo libro fascinoso quanto genuino ne è l’ennesima riprova, meriti ancora più spazio. Nel suo primo romanzo (che nasce da uno spunto autobiografico), Tre Notti, c’è il Marchioni che non sogna il mondo, ma lo cerca nella “terra grassa” del suo passato, ne “la fattoria”, raccontandoci di un quindicenne, Andrea, che fa i conti con la perdita di un genitore. “Per un attimo pensò che se era destino che lui non dovesse più vedere un film in bianco e nero con suo padre, allora era giusto anche che tutta una certa Italia in bianco e nero morisse con lui”. (V. Marchioni, Tre Notti, Rizzoli, 2024) Quante volte l’abbiamo pensato, quante volte abbiamo sperato che quel dolore delle nostre vite di riflesso si espandesse, per farsi spazio fra le cose, gli ambienti, le persone. E che l’eternità di Roma finisse, e noi con Lei. Marchioni in Tre Notti, che arriva a chi lo legge come una carezza sul cuore, restituisce al lettore ritratti di uomini che “si è divertito a far piangere”, rapporti familiari, una profonda riflessione sulla fatica e l’etica del lavoro (e lo fa in un’Italia che su questo tema avrebbe molto su cui interrogarsi), e molto altro ancora... Marchioni ci ha rilasciato un’intervista non solo su questa attesissima uscita (Tre Notti è in vendita dal 7 maggio) ma anche per svelarci quanto assomigli davvero ai ruoli spesso “cattivi” e “arrabbiati” che ha interpretato in cui: “C’è sempre un lato morbido, c’è sempre una grande tenerezza anche dietro al pezzo di marmo”. E sui giovani d’oggi (fuori e dentro le manifestazioni) e il valore dimenticato del teatro…
In apertura del tuo primo romanzo Tre Notti, citi Pasolini: “Non vogliamo essere già così sicuri. Non vogliamo essere già così senza sogni”. Sei attore di teatro e di cinema, regista, ora esordisci anche nella scrittura… hai ancora un sogno non realizzato?
Ne ho tanti. Il mio sogno è quello di continuare a recitare e ad esprimermi, anche scrivere per me era un sogno. Qualcosa che invece esca fuori dai miei lavori, ci devo pensare. Forse vorrei viaggiare di più, penso che viaggiare sia una delle cose che aprano la mente più di tutto. Viaggiare fisicamente diciamo, visto che finora ho viaggiato molto imaginificamente grazie al mio lavoro. Quando studi, reciti, è come se ti si aprissero dei file meravigliosi, puoi approfondire mondi culturali lontani. Cosa che con altri mestieri non si ha la possibilità di fare. Sentirsi uno straniero in un’altra terra, in mezzo a un’altra cultura, ti mette in diretto contatto con ciò che sei, con il concetto di identità, sia nel bene che nel male.
Qual è il personaggio che ti ha permesso di “andare più lontano”?
Non ce n’è uno in particolare, sono tanti. In 20 sigarette, Aureliano, il mio primo ruolo da protagonista nel cinema, è stato quello che mi ha aperto la mente su quel tema lì. Poi ci sono alcuni ruoli che ti restano più attaccati per l’esperienza che hai fatto mentre preparavi quel film, penso anche al mio personaggio sordo, Fabio, in Tutta colpa di Freud. È stato meraviglioso avere avuto la possibilità di immergermi in quel silenzio, costruire quel personaggio assieme a una persona sorda che mi ha aiutato tantissimo e fatto entrare nel suo mondo. Un altro ferragosto è stato un viaggio immersivo straordinario e straziante perché quando interpreti personaggi così negativi come Cesare, il lavoro più grande è quello di non cadere nel giudizio, ma divertirti e farlo nel peggior modo possibile e per farlo devi anche immergerti davvero in quel mondo là e quindi ogni tanto esistono anche dei mondi molto brutti (ride, ndr). È una delle fortune, dei privilegi di questo mestiere che però comporta anche un certo grado di resistenza se vuoi.
Nel libro scrivi: “Chi sei tu se tuo padre non ti vede? Chi sei? Se lui e tua madre non ti sentono? Se lui non c’è più, anche un pezzo di te non c’è più”. C’è qualcosa che hai fatto da ragazzino che non hai detto ai tuoi genitori?.
Ma tantissime cose, io sono stato uno dei peggiori (ride, ndr)! Ogni volta che devo riprendere i miei figli oggi mi torna in mente ciò che ho fatto io e loro mi sembrano a confronto dei campioni del mondo di educazione e civiltà. Penso sia connaturato mentire durante l’adolescenza e che ci sia la voglia di sperimentare il mondo e di farlo da soli. Quando dico che è connaturato intendo questo, nel senso che si ha la voglia di mangiarsi il mondo e sperimentare la vita da soli e quindi in un certo senso è anche normale mentire. Poi chiaramente ci deve essere quel dialogo, quella comprensione necessaria da parte dei genitori che comprendono questo movimento qui. La cosa complicata quando si cresce è che si dimentica di esserci passati e quindi si giudica i più giovani da un punto di vista adulto. Mi viene in mente una frase di Paolo Conte che diceva “si sbaglia da professionisti” quando si è adulti e non si ha più l’empatia per permettere a quelli più giovani di noi di fare degli errori non da professionisti.
Altra citazione dal tuo romanzo: “L’autorità che alzava la voce per insegnarti i limiti e le possibilità, la parte maschile del mondo”. Galimberti parlava di autorità fallite quali i genitori e la scuola che oggi più di ieri faticano ad avere e a ricoprire una figura autorevole con i figli e i ragazzi. Sei d’accordo?
Siamo in un periodo di grande cambiamento ed evoluzione, o involuzione? Io penso che l’autorità faccia parte della crescita, per quanto mi riguarda credo che un padre e una madre siano lì per farti capire i limiti e così come è naturale che un giovane durante le varie fasi della crescita abbia la necessità di spingerli questi limiti e far sì che si spostino un pezzetto più in là, il genitore (uomo o donna che sia) è presente per dirti che a un certo punto i limiti non si possono spostare più. E spiegarti il motivo dietro quel “no”. Noi oggi siamo molto più permissivi, non voglio dire che era meglio prima, però dico che ogni tanto vedo che la mancanza di “no” e di autorevolezza e non di autorità, che sono due cose completamente diverse, ecco questa mancanza credo renda più confusi i più giovani proprio perché non hanno limiti o ne hanno molti meno.
Questa “parte maschile del mondo” di cui parli nel libro che cos’è oggi?
Penso che siamo in un grande frullatore, c’è grande confusione sia rispetto al tema delle autorità che al concetto di “maschile” nel mondo. Penso ci sia bisogno di parlare, di confrontarsi. Leggevo un’intervista ad Alice Rohrwacher che diceva “quando smetteranno di chiedermi com’è essere una regista donna”, ecco io questa cosa non la sopporto più, quando faranno la stessa domanda ad un uomo? Penso che la maschilità sia da indagare di nuovo, da riscoprire e riprenderci delle cose che sono buone della parte maschile del mondo e lasciare da parte, buttare via quelle che sono invece legate alla mascolinità tossica e al patriarcato. C’è bisogno di un dialogo, dobbiamo riappropriarci della possibilità di una critica senza il giudizio. La cosa devastante di questi tempi è che o è tutto bianco o è tutto nero e se è così non c’è possibilità di nessuna discussione. Per questo motivo si entra subito in uno scontro senza incontro e confronto che invece sono due fasi fondamentali che oggi sembrano essere completamente bypassate. E questo romanzo, Tre Notti, è anche un’indagine su quel maschile lì, chiaramente ambientato nel 1991, quindi in un contesto se vuoi ancora impregnato di una certa mascolinità. In questa storia io mi sono divertito molto anche a far piangere i personaggi maschili e a farli vedere da questo ragazzino mentre piangevano.
Racconti de “la fattoria”, “il caminetto della casa dei nonni”, e poi di questa terra in cui “c’è il sangue lì dentro e un odore sgradevole” e di una “terra grassa” da mangiare, se non vado errata te sei anche cresciuto in campagna. Che rapporto hai con con la natura?
Ho un rapporto con la natura che ho riscoperto da grande. In quella parte del libro c’è molto di quel passato, sai quando sei piccolo e ti fanno mangiare la terra non è che sia una cosa bellissima (ride, ndr). Tuttavia è un gesto d’amore, per i miei nonni era un modo per trasmettermi delle cose, tramandare un tipo di sapienza ancestrale, molto materiale sì, ma che aveva a che fare con la luna, con le fasi lunari, con il ciclo mensile della natura. Tutte queste cose però le capisci solo quando sei grande. Quando sei piccolo odi tutto questo, io volevo giocare a pallone in mezzo alla vigna e mi prendevo i “no”, poi però da grande comprendi che qualcosa di buono e di eterno in quella roba lì c’era. E che oggi la stiamo perdendo.
Cioè?
Sicuramente le modalità sono tutte da rivedere però i principi che ci sono dietro, la trasmissione ancestrale di amore e rispetto verso la terra è fondamentale, bisogna riscoprirla. Poi non ci possiamo lamentare se siamo intrisi di dibattiti sullo sfruttamento sulle risorse natuali e poi nessuno di noi però sa più piantare un pianta di insalata (ride, ndr), se ci lamentiamo senza fare qualcosa nel rispetto di questa terra, che ancora ci dà da mangiare, nel bene o nel male, c’è qualcosa che non va. Quel tipo di sapienza lì, anche di timore reverenziale che io ricordo da parte di mio nonno verso la terra, me lo porto dietro come un grande insegnamento. Per questo ho voluto parlare, trattare questo argomento in un modo così crudo e in maniera anche un po' anacronistica, perché gli anni Novanta erano anni di grande passaggio. Ecco mi auguro che alcune descrizioni, alcuni passaggi nel libro facciano riflettere su quanto abbiamo perso e guadagnato.
Sempre nel tuo libro dai spazio a riflessioni sulla malattia e sul lavoro.
Mi interessa molto riflettere su quanto scegliere il lavoro da fare sia importante. Io sono cresciuto con una frase “scegli il lavoro che ti piace e non lavorerai mai un giorno della tua vita”. Ecco, penso che questo sia veramente fondamentale, perché in quegli anni c’era ancora l’educazione al posto fisso, l’idea di portare lo stipendio a casa e tutta una serie di cose che obbligavano le persone a non scegliere ma semplicemente a fare la cosa che gli capitava prima e che poi sarebbe diventato il lavoro per tutta la vita. Penso sia fondamentale ricordarlo oggi nel 2024, perché oggi nel bene e nel male c’è la possibilità di scegliere molto di più e credo che in generale vada recuperata un’etica, per ricordarci di quanto lavorare sia importante per l’essere umano con tutti i diritti e le tutele del caso, sia chiaro.
Al cinema ti abbiamo visto spesso in ruoli anche molto “arrabbiati” di uomini forti, senza paura. Che rapporto hai con la rabbia?
In realtà io non mi arrabbio mai nella vita, evito sempre lo scontro. E non va bene, lo so (ride, ndr). Sto imparando con gli anni a mandare a quel paese le persone quando serve… Però questo per dire che questi caratteri, questi personaggi, credo mi riescano bene proprio perché nella realtà sono l'esatto contrario. Riesco a tirare fuori un lato caratteriale che nella vita non ho, però quando io mi trovo ad interpretarli, mi diverto a trovare la “crepa”. Io non credo negli uomini che sono tutti d’un pezzo, c’è sempre un lato oscuro, morbido, c’è sempre una grande tenerezza anche dietro al pezzo di marmo. Mi piace trovare nei ruoli che costruisco una vena in cui se la tocchi c’è il rischio che crepi tutto.
E cosa ne pensi del sentimento di rabbia da parte di tanti giovani d’oggi che sono tornati a distanza di tempo a manifestare, a lottare in piazza per far sentire la propria voce?
Tornando all’adolescenza io credo che manifestassimo molto di più noi. Noi scioperavamo anche per non andare a fare un'interrogazione di inglese, insomma, c’era una ingenuità diversa, c’era una incoscienza, una non conoscenza di alcuni temi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Oggi i ragazzi mi sembrano molto più coscienti, informati sulle cose, educati nel senso auto-educati ad approfondire i temi per cui combattono e penso che manifestare faccia parte di quell’età lì. È normale essere incazzati con il mondo quando hai 18 anni. Molto spesso mi stupisco invece di quanti ragazzi oggi siano educati. Quando hai 17 o 18 anni è normale essere arrabbiati con il mondo. Le manifestazioni sono un sacrosanto diritto di ogni libero cittadino, ed è figlio di alcuni anni. Se non manifesti da giovane poi quando ne hai 40 che fai, ti mangi le mani? Poi oggi le cose per cui manifestare ce ne sono eccome, più di quante ne avessimo noi.
Il teatro in altri Paesi ha un ruolo diverso rispetto a quello che ha in Italia?
Il teatro è la fucina di grandi talenti nel resto d’Europa, negli altri Paesi è un fatto culturale, che si respira e si vive nella quotidianità. Negli ultimi anni invece noi abbiamo assistito a un appiattimento, a un involgarimento, a un completo discredito non solo del teatro ma anche degli attori e delle attrici. Invece queste persone sono intellettuali, filosofi, semiologi. Si spaccano la schiena e si interrogano sulle cose, è in un certo senso il mestiere dei paradossi: “Il più inutile e il più importante del mondo”. Io penso che qualsiasi essere umano avrà sempre bisogno di cibo per l’anima, di sognare, di alzare un attimo lo sguardo dalla materialità delle cose, dalla crisi, dalle bollette, dalle tasse, dalla politica. Si guarda un film, si va a vedere uno spettacolo e per due ore si stacca la testa da quella pesantezza lì e si riprende ad avere entusiasmo, tramite la condivisione, l’arte, una voglia si riaccende. Soffro del fatto che di teatro non se ne parli mai.
Come si può risolvere questo problema e avvicinare i giovani a questo linguaggio?
Bisognerebbe insegnare teatro nelle scuole, penso debba diventare materia, ma non solo teatro ma proprio "mettersi nei panni dell'altro". Non lo dico solo io, lo dicono un po' tutti quelli che fanno questo mestiere. È il primo esercizio della democrazia ma anche quella cosa che fa sentire il prossimo come fosse te stesso, quindi tu non vorresti mai fare del male a te stesso se ti fai delle domande giuste. Chi è l’altro? Come faccio a mettermi nei suoi panni? Questo lo dico perchè per me è importante comprendere le differenze, cosa mi rende vicino, cosa mi rende molto lontano da un’altra persona e soprattutto insegna l'assenza di giudizio che è una cosa che subisco moltissimo nella società, non io direttamente, ma lo vedo sui social. C’è una spada di Damocle su ognuno. Ci sono giudizi molto sommari. Ho paura, vedo un mondo manicheo, mentre ci sarebbe bisogno di un po' più apertura e di curiosità da parte di tutti perché i social hanno appiattito anche la nostra curiosità.
Sempre nel tuo libro e anche a teatro parli spesso della Capitale. C’è un angolo di Roma dove vai che ti fa star bene?
Guarda sì, ma è un po’ che non ci vado. Nei primi anni che ho fatto questo mestiere, siccome ho iniziato al teatro della Cometa in via del teatro Marcello, quando andava tutto male e ti sentivi il peggiore attore del mondo, perché capita, dopo le prove o in pausa, andavo dietro al Campidoglio e vedevo tutto il foro romano. Ecco lì, quel posto, andarci quando non’è nessuno, ti mette in contatto con l’eternità, riesce a sollevare le mie pesantezze.