Nella recensione di Io sono un autarchico di Nanni Moretti su L’Espresso del 1977, Alberto Moravia scriveva: “Il comico si annida nelle cerniere della storia come una ruggine corrosiva. Esso nasce infatti da cambiamenti radicali nella scala dei valori, per cui ciò che era reale e dunque sacro ieri, diventa irreale e dunque dissacrato oggi”. Nella lenta trasformazione di quei valori, un tempo considerati intoccabili e oggi invece “sconsacrati”, si posiziona il comico. La figura che più di tutti dovrebbe sentirsi libera di esprimersi e di fare ironia sui temi difficili come la religione, la politica e le questioni sociali che ingabbiano la società, oggi facile preda di dinamiche social e pressappochismi. Prendere una posizione, schierarsi in una fazione è divenuto un vero e proprio imperativo imposto dall’era digitale che spesso e volentieri ci fa credere di non avere tempo a sufficienza per approfondire un dato argomento e noi, non curanti di questo, preferiamo dire comunque la nostra e farlo in fretta. Il comico Stefano Rapone, però, ci ha ricordato l’importanza della conoscenza, del dialogo, della comprensione, cose che attualmente sembrano diventate sconosciute. Ma chi è Stefano quando nessuno lo guarda fuori dalle telecamere dei programmi più seguiti e amati dagli italiani? Lo conosciamo come comico, conduttore di Tintoria (al fianco di Daniele Tinti), autore insieme al Trio Medusa nei programmi Wipeout - Pronti a tutto! e Takeshi's Castle e nel 2018 con Mai dire Talk della Gialappa's Band, stand-up comedian, ma pochi sanno della sua passione per i fumetti (ha pubblicato due graphic novel: Marco Travaglio Zombi nel 2014 e Natale a Gotham nel 2017), dell'attrazione per la lingua e cultura giapponese o quali siano stati i suoi sogni da bambino. Rapone è un personaggio che sembra essere uscito da un cartone animato, che in una puntata di Tintoria ha ammesso di battersi per i menù dei ristoranti con le immagini dei piatti, lo stesso che ama parlare ma anche ascoltare, tanto e bene, chi ha di fronte (specie se al suo fianco ci sono Giobbe Covatta ed Elio). In questa intervista, sorseggiando una tisana alla liquirizia al tavolo di un bar, ci ha raccontato com'è stata la sua educazione cattolica, la cura che mette nella scelta delle parole e il rispetto per le vite degli altri. E sul suo debutto Oltreoceano e l’emergenza migranti... Ecco in esclusiva per MOW com'è passare una giornata con Stefano Rapone.
Che bambino era Stefano Rapone? Cosa volevi fare da piccolo, cosa sognavi?
Che domanda. Ci devo pensare, non è facile. Ero un bambino timido, di sicuro. Un sogno in particolare, invece, ad essere sincero, non ricordo di averlo avuto. Mi piaceva molto disegnare. Ecco, a chi me lo chiedeva forse dicevo di voler fare il pittore, ma ora che ci penso credo di aver detto anche di voler fare l’attore.
Avevi mai recitato?
Ho fatto il taglialegna in una recita scolastica, c’erano gli alberi, la natura e io interpretavo il taglialegna.
Ti sei laureato in Lingua a traduzione giapponese e ti sei trasferito in Giappone dove hai iniziato a esibirti come stand-up comedian in inglese. Come ti sei avvicinato a questo mondo? E come mai in Giappone?
È stato tutto consequenziale. Leggevo fumetti manga, giocavo anche ai videogiochi giapponesi. Il Giappone era una parte della mia cultura e ancora oggi fa parte della mia persona. Come ha formato me credo abbia accompagnato generazioni intere anche grazie ai cartoni animati. Poi quando ho deciso di fare l’università non avevo prospettive particolari e allora mi sono detto di fare qualcosa che piacesse in primis a me, perciò ho deciso di studiare giapponese, così da approfondire la lingua e la cultura e mentre studiavo continuavo a fare fumetti.
Li fai ancora?
Ora disegno qualcosa ogni tanto ma prima facevo proprio delle storie complete che mi autoproducevo e che poi vendevo alle fiere.
Cosa ti ha attratto, portato e ri-portato in Giappone?
La prima volta in Giappone ci sono andato per motivi di studio, poi in magistrale ci sono tornato per svolgere un tirocinio con l’ambasciata italiana. Nel frattempo mi ero appassionato alla stand-up. Che poi, se ci penso, la comicità è l’aspetto che collega tutto, i fumetti e la carriera da comico. Del resto ho sempre amato cartoni o fumetti che avessero al loro interno una componente comica. Penso a Dragon Ball o a Lupin. Poi a un certo punto i fumetti che leggevo all'epoca sono passati in secondo piano, avevano più un target adolescenziale, cercavo qualcosa di più adulto e forse è quel passaggio verso la comicità un po’ più graduale che mi ha avvicinato alla stand-up.
Dove hai debuttato?
In un locale a Tokyo che si chiama Double Tall caffè vicino Shibuya, era un open mic.
Come ti ha accolto il pubblico?
Avevamo tre minuti a testa per esibirci. Gli spettatori erano perlopiù stranieri, americani. La prima volta andò molto bene, anche se non ci credevo nemmeno io.
Di cosa parlava il tuo primo spettacolo?
Era un pezzo in cui dicevo che non mi ero preparato niente, una versione più estesa l'ho messa anche su Youtube. Fece molto ridere. La prima volta andò così bene che iniziai a credere che potesse funzionare, così tornai un seconda volta con un pezzo diverso, perché credevo che non si potesse portare sempre lo stesso testo, e andò malissimo, perché chiaramente non era pronto e poi la terza volta, venivo da un evento per cui ero in giacca e cravatta, andò di nuovo male. Quindi alla fine una volta andò benissimo e le altre due molto male (ride, ndr).
Hai mai avvertito un ostacolo linguistico?
No, eravamo comunque all’estero in Giappone, sì, ma in un contesto in cui eravamo tutti degli outsider. Di certo le cose che facevo all’inizio erano più traducibili adesso meno, spiegare i fascisti e i partigiani fuori dall’Italia, bè, avrei bisogno di più tempo per spiegare questi concetti in un’altra lingua.
Quindi in Giappone hai capito quale fosse il mestiere dei tuoi sogni.
Esatto. Quando mi veniva chiesto cosa volessi fare nella vita, dentro di me tornavo indietro con la mente a quella cosa lì, a quella sensazione che mi era rimasta, all’esperienza su quel palco. E così quando sono tornato a Roma ho deciso di provarci anche in Italia.
Come è stato il tuo debutto italiano?
Fu un open mic gestito da Saverio Raimondo, Edoardo Ferrario e Francesco De Carlo all'Oppio Cafè, un locale di fronte al Colosseo, era una serata bella, strutturata, facevano provare per la prima volta le nuove leve. Lì di certo mi sentivo meno allo sbaraglio.
Tornando ai fumetti, secondo te che cosa ha in comune questo linguaggio con la stand-up?
È sempre un mezzo, dipende come lo usi. La stand-up ha dei paletti più fissi, sei più o meno tu protagonista sempre e devi far ridere in maniera costante, nel fumetto invece puoi anche raccontare lo stesso messaggio però utilizzando altri personaggi, per una storia avulsa da sé. Se prendi Zerocalcare ad esempio, le sue opere potrebbero essere benissimo un pezzo di stand-up, pensa anche alla serie. Basta ascoltarla. Ci sono anche molti autori che mantengono alto il ritmo della risata e raccontano storie come se fossero tutti mini sketch collegati tra loro. Leo Ortolani ogni due tre vignette inserisce una battuta, sembra ritmato come fosse un pezzo di stand-up. Come anche I Simpson. Poi certo nei fumetti, logicamente, ti puoi prendere anche dei momenti più riflessivi, più seri.
Penso alla Gialappa Show e al tuo Padre Norton, agli sketch con Valerio Lundini e a molti altri spettacoli al centro dei quali c’è spesso la religione cristiana cattolica. Che rapporto hai con la Chiesa?
Credo che la Chiesa in generale non sia più così attuale per le nuove generazioni. Penso che non abbia più presa, poi parli con una persona che ha avuto una educazione cattolica. Quello che propongono è una cosa che poteva andare bene più di trenta o quarant’anni fa. Noi siamo l’ultima generazione ad avere una educazione così forte, con i sacramenti, la maggior parte delle persone che conosco oggi o ne sono uscite oppure battezzano i figli più per far contenti i genitori o seguire ciò che si è sempre fatto. In Italia nonostante ci sia il cattolicesimo che teoricamente è molto presente, nella pratica non ha più questa presa.
I tuoi genitori come hanno reagito a questi sketch?
Tranquilli. Forse perché avevano visto che i monologhi erano più incentrati sulla Chiesa e la sua struttura che sul ruolo dei credenti.
Che rapporto hai con la politica?
A livello generale credo che qualsiasi cosa diventi politica. Per cui prima o poi ci hai a che fare, per forza di cose ti ci devi interessare. Ne parlo più come osservatore che come attivista perché non faccio parte di nessun partito politico e non mi riconosco in nessuno in particolare però chiaramente c’è una parte che secondo me è meno peggio dell’altra. Per me gli attuali partiti di destra sono umanamente inaccettabili. Basta pensare alla politica migratoria… Vabbè che anche la sinistra non è che abbia fatto chissà quanto, eh, però l’idea che ci sia dopo vent’anni ancora il tema emergenza migranti, lo trovo ridicolo.
Dicci di più.
Questo problema doveva essere affrontato a suo tempo. Adesso sono passati tanti anni e ancora c’è gente che muore in mare, tutto questo per me è gravissimo. Ho visto che ora alle europee il Pd ha fatto qualche manifesto in cui cita il Mediterraneo, ma salvare e accogliere migranti non è stato mai un tema su cui si è lottato troppo in campagna elettorale per paura di perdere consensi anche a sinistra. Io ho avuto questa impressione. Poi magari sì a livello locale se ne è anche discusso, ma nei dibattiti televisivi e a livello più generale c'è sempre stata molta cautela. È sempre stato un tema da non toccare troppo per la sinistra, mentre a destra hanno fatto di tutto per ostacolare chi salva le vite ai migranti. Cosa che per me è inaccettabile dal punto di vista umano. Specie se ci sono persone che da quel lato si professano pure cattoliche.
Com’è condurre Tintoria oggi?
Quando abbiamo cominciato a farla live portavo io la telecamera, i cavi, Tinti montava e la puntata usciva come usciva. Era tutto fatto artigianalmente. Poi oggi siamo più strutturati, gli ospiti prima erano dei contatti nostri, amicizie, ora abbiamo un ufficio stampa che ci dà una mano e organizza, ci fa dei riassunti, delle interviste per evitare di chiedere loro le stesse cose. Diciamo che per noi si tratta di un carico in meno, oggi possiamo concentrarci di più sulla puntata.
Che rapporto hai con gli ospiti?
Diciamo che il modo di conduzione cambia in base all'ospite. Ad esempio con intervistati quali Giobbe Covatta ed Elio, di cui io sono sempre stato un grande fan, volevo “solo” ascoltare tutto quello che mi dicevano, sapere i minimi dettagli delle loro carriere. Volevo che Elio parlasse senza interruzioni e in casi come quello ecco che divento spettatore anche io. Invece quando invitiamo amici o coetanei, ho più voglia di chiacchierare e anziché soffermarci troppo sulla carriera parliamo di quello che vogliamo. Con tutte le persone che sono più o meno della nostra età si crea questa dinamica divertente e di cazzeggio. Anche perché rispetto a chi ha una carriera di 40 anni alle spalle, dopo un po’ la storia personale finisce e alla fine è bello dialogare con gli stessi riferimenti culturali, di paure, di problemi.
Ti sei sempre sentito libero di dire quello che volevi?
Sì, però chiaramente più diventi influente e più ti poni il problema di dire bene le cose. Magari prima di esprimere un’idea, un concetto, ora ci penso più volte.
Peggio censura o autocensura?
Autocensura? Non si tratta tanto di perdere i consensi perché diciamo che c’è un problema generale di arrivare a tante persone che non sono preparate. Quando la gente paga per vedere un tuo spettacolo ti conosce e così tu automaticamente sai di poter essere libero. Però ecco alcune cose che dico, un po’ più controverse, magari non le metto in un reel sui social anche perché so che andrà ovunque e che può essere decontestualizzato, magari succede che diventa virale e finisce nel feed di una persona che poi si offende. Dal loro punto di vista è come se fosse un’invasione del proprio spazio e la persona in questione si sente in diritto di farti problemi. Ecco, ne vale la pena? Magari uno non sapendo, vedendo un frammento senza contesto, si accanisce e quindi l’autocensura diventa una cosa con cui fare i conti non per pavidità ma perché nel mondo dei social funziona così: se una cosa va fuori rischi che magari c’è pure gente che se la prende e si arriva pure alle minacce.
Temi o argomenti che hanno generato commenti più cattivi sui social?
Di base quando vai a toccare una specifica categoria chiunque ne faccia parte, se sente particolarmente a cuore quella cosa lì, si può arrabbiare. Più che del famigerato "politicamente corretto" - che per me nella società attuale è qualcosa di positivo - è più una questione di campanilismo. Quando ci sono delle cose abbastanza identitarie, anche se vuoi dire altro o hai usato di sfuggita una determinata parola o espressione, capita che qualcuno che non è preparato o non conosce il tuo tipo di comicità e che si soffermi su quel dettaglio e si faccia o ti faccia dei problemi. Chi fa comunicazione ha una responsabilità, però va anche detto che sta al pubblico avere l’intelligenza di capire il contesto.
Pio e Amedeo tempo fa si sono scagliati contro il politicamente corretto e hanno detto: “Nemmeno ricchio*e si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema”. Che ne pensi?
Dipende sempre come dici le cose, se fai una battuta su una persona trans perché la consideri ridicola in quanto trans ci sta che si arrabbino le persone perché tu attacchi un essere umano per la sua scelta di vita, per l'identità sessuale, è come dire che l’umorismo è relativo. Tu fai quel tipo di battuta per far ridere le persone che non sono come lei “guardate quello che è diverso da noi, noi siamo una maggioranza e ridiamo di questa cosa". Tu lo puoi fare però è normale che ci siano persone poi che rispondano. Quella che per te può essere in quel momento una risata, per un altro è l’ennesimo scherno, è la sua vita, in quel caso c’è proprio un dislivello di potere.
Ci vuoi fare un esempio?
Nella serie Louie, nella seconda puntata, c’è un gruppo di comici fra cui uno di destra e un altro omosessuale, che giocano a poker. A un certo punto uno di loro dice la parola “faggot” e ha inizio un breve dibattito. Ci si chiede perché non si possa usare questa parola, perché non faccia ridere. E uno dei comici gli risponde che può usarla ma che prima di farlo deve sapere che quella parola lì si riferisce a dei ramoscelli che si mettevano insieme per bruciare gli omosessuali e quindi se uno la utilizza di fronte a un giovane che magari ha avuto una infanzia tosta legata all’accettazione e al bullismo per la propria identità sessuale, quest’ultimo potrà leggerci dietro un richiamo a tutte le volte che è stato chiamato in quel modo. E la scena poi si chiude con il tizio che dice all’altro “you're such a faggot” e un bacio in fronte. Ecco questo per dire che le cose vanno spiegate bene, senza violenza.
Accade questo soprattutto oggi, nell'era digital?
Invece sui social tutto ciò non accade, parte subito la shitstorm. E allora che succede? Che una persona chiaramente di fronte a quell’ondata di messaggi si fa delle domande sì, ma magari si sente umiliata e cova anche del rancore. L’attivismo non deve essere “scateniamo l’inferno contro una persona”, ma “parliamoci, poi se vuole capire, capisce”. Io molte cose le ho capite perché me le hanno spiegate.