Cinema e musica sono mondi che si intrecciano in continuazione. Lo dimostrano i tantissimi biopic che sono usciti nell’ultimo periodo su Amy Winehouse, Bob Marley, e quelli che si faranno (voci girano su un possibile Leonardo DiCaprio nei panni di Frank Sinatra diretto da Martin Scorsese). Lo dimostra il film Il segreto di Liberato di Francesco Lettieri, che racconta il vero mistero che si nasconde dietro la maschera del cantante napoletano: semplicemente la sua storia. L’anonimato come strumento per rimanere se stessi, fedeli allo spirito con cui ci si avvicina alle proprie passioni. E alle amicizie. Di questi intrecci abbiamo parlato con Damir Ivic, giornalista che da anni analizza e scrive di musica. L’ultimo suo progetto è un podcast, Cinecittadini, realizzato insieme a Frankie hi-nrg mc, che mette al centro proprio il cinema e i suoi luoghi: per le vie di Cinecittà, infatti, i due danno voce alle maestranze, ai registi. A chi quella “cittadella” la vive quotidianamente: “La cosa che mi è piaciuta è che non c'è stato neanche quel sapore di intreccio con la politica. Nella mia impressione ho avuto a che fare con una realtà molto professionale”. Una fiducia che fa ben sperare nel futuro. Diverso, invece, il discorso per la musica, così ingabbiata nei vincoli delle piattaforme: “Mi sembra che in questo momento la musica abbia un'ossessione nei confronti del risultato numerico che è malata”. Sul tax credit, il finanziamento pubblico al cinema, ha le idee chiare: “Dà la possibilità di sopravvivere a dei freelance di qualità, quindi sicuramente deve esserci”. Gli abbiamo chiesto anche dei David di Donatello, di Paola Cortellesi, Alice Rohrwacher e della validità della storia di Liberato per un film: “Combinando antico e moderno risulta non banale. Liberato non è fuffa”. E sul prossimo musicista che vede in un biopic lancia la bomba: “Vorrei vedere Marracash, per il suo spessore umano e intellettuale”. E se Marra gli chiedesse un consiglio, gli direbbe di fare addirittura il regista.
Damir Ivic, tu e Frankie Hi-nrg mc avete iniziato questo nuovo podcast su Cinecittà, Cinecittadini, e nelle parole degli intervistati è emersa l’idea di una nuova direzione del cinema italiano: ci spieghi il senso di questa svolta?
Già il fatto che arrivi in un posto e percepisci un'atmosfera di energia, di ottimismo e di fiducia verso il futuro è una cosa abbastanza rara per l'Italia, perché il fatto che noi siamo un paese in declino si vede da miliardi di cose. Proprio prima di rispondere al telefono stavo leggendo l'apertura del Corriere della sera che diceva che l'Italia è l'unico paese in Europa dove il potere d'acquisto degli stipendi è calato, e non è aumentato a partire dal 1990. La stessa Cinecittà ha vissuto dei periodi molto complicati in passato. Con questa nuova generazione e questo nuovo management pare ci sia veramente una capacità di sincronizzarsi col presente in maniera ottima.
Che sensazioni hai avuto quando sei arrivato lì?
Senti proprio la sensazione di: le cose stanno andando, siamo bravi, siamo riconosciuti nel nostro essere bravi. Possiamo guardare con buona fiducia nel futuro. È stato molto bello da affrontare.
Lucia Borgonzoni, la sottosegretaria al cinema, pur con qualche critica, è elogiata anche da persone che di solito non condividerebbero la sua parte politica, quindi evidentemente questo sentimento va al di là dell'orientamento politico.
Sì, poi in realtà lei non è mai stata nominata nel podcast, ma noi abbiamo fatto il grosso delle nostre interviste mesi fa. Sicuramente il ruolo di Nicola Maccanico, che è un po' l'amministratore delegato di Cinecittà, fa da traino a tutta la realtà. La cosa che mi è piaciuta è che non c'è stato neanche quel sapore di intreccio con la politica. Nella mia impressione ho avuto a che fare con una realtà molto professionale: tutti quei luoghi comuni sul fatto che adesso finalmente la politica appoggia il cinema, Roma ha spesso questo aspetto molto limaccioso, lì non l'ho incontrato. Non sono stati nominati dei politici, vecchi o nuovi regimi, ma si è parlato veramente di lavoro e di professionalità.
Il tax credit, che è il finanziamento più discusso anche in termini politici, spesso viene attaccato. C'è chi dice che i film sono tanti, chi dice che costano troppo. Tu come la vedi?
Questo è un problema molto vasto, che emerge anche quando parli direttamente con le persone, al di là di quello che è stato il nostro podcast. Io ho parlato con un'amica che lavora come truccatrice e mi ha spiegato bene il periodo che stanno vivendo: ci sono ancora una serie di questioni sospese attorno al tax credit, e questo significa che ci sono molte persone senza lavoro. Quindi arrivare da fuori e dire “basta sprechi” è molto facile. In realtà il tax credit, se usato in maniera decente, è un motore imprenditoriale, detto alla Confindustria. Detto all'essere umano, è qualcosa che fa lavorare le persone, dà la possibilità di sopravvivere a dei freelance di qualità, quindi sicuramente deve esserci. Poi che ci siano state delle storture è certo. L'Italia è da sempre il paese delle storture, dell'arraffare, del trovare il cavillo, l'inganno.
Come si fa a prevenire quelle situazioni?
Ciò che ci può salvare è veramente la professionalità. Io non vorrei fare il tecnocratico, però siamo in una fase della nostra esistenza, dell'esistenza di questa nazione, in cui purtroppo un po' di attenzione sulla capacità di lavorare va messa. Perché se iniziamo a fare dei grandi discorsi rischiamo di perderci, rischiamo di creare le solite tifoserie una contro l'altra. Bisogna andare molto sul concreto invece, quindi il tax credit ha sicuramente avuto un sacco di storture, però usato nella maniera giusta mi sembra un modo molto intelligente di liberare delle energie anche artistiche, non solo professionali.
A proposito di professionalità: molti hanno criticato la scelta di lasciarle fuori dal palco principale le maestranze degli scenografi e dei costumisti ai David di Donatello.
Durante la cerimonia dei David ero seduto proprio a fianco della persona che ho sollevato le maggiori polemiche quando ha ricevuto il premio (Sergio Ballo, ndr). È difficile, nel senso che capisco perfettamente la loro posizione, capisco il fatto di essere considerati dei professionisti di serie b, tra l'altro proprio nel momento in cui, col problema del tax credit e delle produzioni ferme, loro sono i primi ad andarci di mezzo. Perché si sa, quando la situazione è difficile, i primi ad avere conseguenze sono i più deboli. Capisco anche la volontà di far vedere che comunque Cinecittà non è solamente uno studio, il famoso numero cinque di Federico Fellini, perché poi si rischia di cadere veramente nella retorica, ma che ci sono anche degli altri spazi. Forse la cosa poteva essere gestita meglio, magari concedendo il premio dentro la sala come tutti gli altri e provare a immergersi nelle altre location con degli stacchi o dei momenti musicali. Chiaramente parlo senza conoscere tutte le difficoltà produttive, ma veramente da puro spettatore esterno.
Le piattaforme come Netflix e Amazon Prime come sono vissute a Cinecittà?
Hanno un ruolo molto laico e neutro. Io opero soprattutto nella musica e in quel campo le piattaforme sono dei dittatori totali e assoluti, cioè dipendi completamente da loro. Quindi nell'industria musicale si va sempre a finire lì, a dipendere da che tipo di reazioni avranno le piattaforme, esattamente come un tempo dipendevi dalle reazioni della radio, che adesso invece conta molto di meno. Invece nel contesto cinematografico non ho visto questa ossessione. Certo, possono essere dei datori di lavoro, possono creare delle nuove produzioni, però come ci sono le piattaforme ci sono i film tradizionali. Non sono ossessionati dall’argomento e questo devo dire che mi è sembrato molto sano.
Questo approccio statistico non c'è nel rapporto tra cinema e piattaforme?
Più che statistico a me sembra un approccio psicologico, perché alla fine i numeri sono importanti, tanto nella musica quanto nel cinema. Ho come l'impressione che in questo momento la musica, chiaramente la musica pop mainstream, abbia un'ossessione nei confronti del risultato numerico che è malata, veramente malata. Ormai anche gli artisti si parlano fra loro in termini di dischi d'oro, platini, stream: tutto ciò è pericolosissimo. Questa roba nel campo dell'industria cinematografica, dagli attori e registi, fino alle maestranze, non l'ho incontrata. È stata una boccata d'ossigeno eccezionale.
Parlando invece dei gestori delle sale: Alice Rohrwacher ha detto che parte della crisi è anche colpa, forse, della poca lungimiranza di certi gestori, più che dei produttori o dei registi. Sei d'accordo?
Altro tema molto grosso. Citando l’ex terzino del Lecce Luigi Garzya, sono pienamente d’accordo a metà. Può essere che i gestori non siano troppo lungimiranti e presi dal panico vadano solamente a inseguire quelli che loro ritengono dei blockbuster. Questo è come fare agricoltura intensiva su un terreno: se vai solamente con i film che funzionano e a un certo punto non funzionano più manco loro, nel frattempo hai bruciato una generazione di spettatori. L'altro lato della medaglia è che comunque le scelte le fanno le persone. Quindi anche chi è appassionato di cinema deve fare un po' mea culpa, perché se i film di qualità fanno fatica nelle sale non è perché i gestori sono dei buzzurri, ma anche perché effettivamente la gente non va più di tanto a vederli.
Gianni Canova ci ha detto che i maggiori problemi sono dovuti a una mancanza di “educazione alla sala”, ma individuava delle mancanze anche nella comunicazione e nel marketing.
Credo che rispecchi abbastanza il mio pensiero. Dobbiamo approfittare del fatto che per il cinema italiano sia tornata una fase in cui si cerca di costruire dei film godibili anche per il grande pubblico. Se non ricordo male negli anni Ottanta e Novanta si era affermato una sorta di autorialità nobile, se vogliamo, eticamente e artisticamente, ma molto più difficile da comprendere, come un po' nella musica classica. A un certo punto la musica classica contemporanea era diventata volutamente inascoltabile e dissonante. Poi si è ripreso a riscoprire l'importanza di mettere anche un po' di armonia e di melodia. Stesso discorso per quello che è successo al cinema.
Sicuramente ha fatto bene Paola Cortellesi, che nel podcast ha detto di essersi sentita spiazzata a un certo punto della sua esperienza.
Lei ha ricordato l'importanza di dare fiducia ai giovani autori. Noi Paola l'abbiamo intervistata prima che uscisse il film, quindi non si sapeva come sarebbe andata a finire. Se lei si dice sorpresa per quello che è stato l'esito del film, vi assicuro che è così. Non se l'aspettava nessuno, neanche lei.
Ti è piaciuto C’è ancora domani?
È un film molto scorrevole, godibile, chiaro in tutta una serie di riferimenti. Non è il film più sperimentale del mondo ovviamente, però ha trovato quel giusto mezzo tra contenuto, estetica, gradevolezza, anche difficoltà del messaggio, che ha funzionato ed è la dimostrazione che i film italiani possono funzionare. Non deve essere tutto ridotto al grado zero per andare incontro alle supposte capacità intellettuali dello spettatore medio.
Secondo te i ragazzi sognano ancora Cinecittà?
Dovrebbero sognarla di più. Dentro Cinecittà c'è veramente un grande radunarsi di intelligenze e competenze. C’è tutta una fascinazione nei confronti del mondo del gaming, dove entrano anche un sacco di investimenti, che a me farebbe piacere fosse rivolta nella direzione di Cinecittà e del cinema in generale, perché è veramente una delle arti più complete, anche più completa della musica. Però è vero, non è così popolare voler andare a lavorare a Cinecittà. Secondo me dovrebbe tornare a essere il sogno di molti. Non imitando gli anni Cinquanta o Sessanta, ma in una maniera contemporanea, consapevole delle nuove tecnologie e piattaforme.
Parlando con Luca Marinelli poi avete discusso sul fatto che dieci anni nel mondo dell'arte sono un po' relativi: tra dieci anni il mondo del cinema lo vedi cambiato in meglio o in peggio?
Se lo sapessi non sarei qua a parlare, ma avrei già scommesso in borsa per guadagnarmi da vivere (ride, ndr). Lo vedo in meglio comunque, perché dopo una fase in cui abbiamo scoperto il gusto dell'immediatezza, della velocità, di sentirci tutti protagonisti sui social ce ne sarà un’altra. Secondo me si tornerà a cercare la profondità, un po' più di complessità. Quindi io se penso al futuro del cinema, magari sbagliando, e dovessi giocare in borsa, 20 euro ce li metterei sicuramente.
Cinema e musica sono mondi che si parlano da sempre, ma come mai in questo periodo ci sono tutti questi biopic? Pensiamo a quelli su Bob Marley e Amy Winehouse, per esempio.
Perché si è capito che la musica è profondamente inserita nell'immaginario collettivo. Sembrava che la musica fosse una nave destinata ad affondare quando era legata completamente alla vendita del supporto discografico, quindi vinili, cd e tutto il resto. Quando poi si vendevano sempre meno, per mille motivi, a partire dalla musica liquida su internet, sembrava che della musica in realtà gliene fregasse poco alle persone. Ora si è capito che è falso e le grandi major discografiche guadagnano come mai prima, perché hanno imparato a monetizzare ogni singola cosa. E la gente continua ad avere bisogno di musica. Vedendo che è un fattore così importante nella vita e nei consumi culturali delle persone, anche il cinema ha detto vabbè dai, vale la pena, proviamo a vedere se funziona.
Quella di Liberato è una storia da film?
Io stimo molto Francesco Lettieri, stimo moltissimo anche Lorenzo Ceccotti, che ha curato la parte grafica di Il segreto di Liberato. Conosco decentemente la storia di Liberato, so anche chi è e so che il film non lo svela, però di sicuro se raccontata bene è una storia interessante. Sulla carta le condizioni ci sono.
Molti si chiedono se Liberato non sia più un fenomeno di marketing che un qualcosa di nuovo dal punto di vista musicale. Tu cosa ne pensi?
È sicuramente un fenomeno di marketing, ma semplicemente perché oggi la musica è così. Siamo obbligati a tener conto del marketing molto più di prima. Se c'è solo marketing, però, una cosa non sta in piedi, e Liberato dopo tutti questi anni ha dimostrato di stare in piedi, quindi c'è anche uno spessore di intelligenza musicale, di capacità di posizionarsi, di creare dei suoni interessanti combinando antico e moderno, non è banale. Liberato non è fuffa.
E poi si può fare anche un “marketing d'autore”.
Esattamente, ma questa è la cosa che spesso sfugge, perché arriviamo da decenni in cui il marketing era il nemico, il mercato era il nemico. C'era l’autore che si isolava e faceva delle cose solamente per i prescelti che potevano capirlo. La mia domanda è: a cosa serve tutto questo? E l'altra domanda: a cosa porta? Per fortuna ora si sta andando in una direzione diversa. Dopodiché non voglio che tutto diventi un brodo primordiale in cui il mainstream e l'underground siano la stessa cosa. Bisogna sempre fare delle scelte di campo e bisogna identificare chi lavora in un modo e chi in un altro, quali sono i vari punti di riferimento. Però creare degli steccati dogmatici e così brutalmente schematici non porta da nessuna parte.
Geolier, che è anche lui definito da molti come un fenomeno di marketing, è stato criticato duramente, mentre Liberato invece non è attaccato. Come mai c'è questa differenza?
Molto semplicemente perché Geolier è andato a Sanremo, Liberato no. Sanremo è un frullatore malefico in cui devi tirare fuori per forza la polemica ogni giorno. Se anche Liberato fosse andato a Sanremo qualcuno avrebbe tirato fuori qualcosa che non va.
Un artista che va a Sanremo viene giudicato unicamente per quello?
No, perché un artista che va a Sanremo viene vivisezionato, gli viene rinfacciata qualsiasi cosa, giusta o sbagliata che sia. Tutte le polemiche che ci sono state attorno a Geolier, secondo me, se lui non fosse andato al festival non ci sarebbero state. Infatti erano polemiche relative a sue fotografie di anni fa, per intenderci. E se lui non fosse andato a Sanremo avrebbe continuato a fare vagonate di stream, a fare dei concerti che vanno bene e nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Andando a Sanremo entri sotto lo scrutinio del moralismo nazional popolare che è super attento a tirare fuori tutte le cazzate possibili. Se Liberato andasse a Sanremo sono convinto che anche lui passerebbe sotto questo scrutinio insopportabile.
Nell’intervista con Gino Castaldo è emerso il fatto che per la prima volta dopo anni la gente parlava di musica e non di cose parallele. Di questo ha anche dato i meriti ad Amadeus.
Secondo me la svolta è arrivata con la direzione artistica di Claudio Baglioni, che ha avuto una sensibilità da musicista nel mettere insieme delle cose diverse, in maniera quasi inconscia, a spingere le persone a tornare a occuparsi di musica. Poi Amadeus ha continuato il lavoro, ha comunque un rapporto stretto con tutti gli operatori del settore, con le case discografiche ed è uno che la musica la mastica. Vediamo adesso cosa succederà, io sono abbastanza preoccupato.
In che senso?
La gestione Amadeus aveva dei suoi limiti, soprattutto l'ultimo festival: c'erano troppe canzoni che erano uguali fra di loro. Quello che potrebbe accadere adesso, però, potrebbe essere molto peggio.
Ma sei preoccupato per i nomi che stanno uscendo o per l’entità del cambiamento che inevitabilmente ci sarà dopo cinque anni?
Per quello che potrebbe venire fuori, perché mi sembra ci sia una tale ansia di cambiare persone e indirizzi dentro la Rai, e in generale dentro la cultura italiana, che si guarda più alla necessità di cambiare, detto in maniera neutra e diplomatica, che alla reale competenza delle persone.
Alessandro Cattelan potrebbe portare qualcosa di diverso?
Potrebbe essere interessante perché anche lui è uno di cui recensivo i demo quando faceva pop da minorenne o poco più, quindi so che ha un background di un certo tipo. Dipende molto da quanta libertà ti danno. Amadeus è stato bravissimo ad avere una grandissima libertà d'azione, decideva lui. Se arrivasse Cattelan andrebbe bene, però il punto di domanda è, sarebbe veramente libero di fare tutte le sue scelte senza imposizioni, senza indirizzi? Mi va bene che ci sia Povia a Sanremo, ma Povia non ha mai fatto una canzone decente in vita sua per quanto mi riguarda. Al massimo è ricordato per il verso di un volatile e non mi sembra un grandissimo risultato.
Tra le ragioni dell’addio di Amadeus forse c'era anche questo: aveva capito che quella libertà non ce la poteva più avere.
Eh mi sa proprio di sì, ma l'ha detto anche lui, o almeno l'ha fatto capire. Le pressioni ci sono sempre se occupi quel ruolo e certe volte sono state veramente pesanti e poco rispettose del criterio artistico, qualitativo. Erano pressioni volte a dare un certo tipo di indirizzo, non per raccomandare qualcosa di valido culturalmente.
Chi vorresti vedere dei musicisti di oggi tra vent'anni in un biopic?
Prima dei vent'anni vorrei assolutamente vedere Marracash, perché penso che Fabio abbia uno spessore umano e intellettuale davvero eccezionale. Di tutti gli artisti che girano in questo momento in Italia è quello di cui più volentieri vorrei vedere un esordio dietro la macchina da presa.
Lo vedi proprio in veste di regista?
Chiaramente con l'aiuto di una serie di professionisti, però ha già dimostrato di saper alzare il livello di volta in volta. Se mi chiedesse un parere io gli direi di sì, senza dubbio.
Magari coinvolgendo Salmo e Noyz Narcos, che hanno lavorato con Dario Argento. Sarebbe un trio mica male.
C'è la passione per il cinema in quella cricca lì, però quello che ha più capacità di visione d'insieme secondo me è proprio Marracash, pur con tutta la stima per Salmo e Noyz. Quello che Marra ha fatto con Noi loro e gli altri è un ritratto dell'Italia che nessuno mai aveva proposto, secondo me, dai tempi di Fabrizio De André.